Torna a grande richiesta la rubrica di antropologia spicciola: dopo i filosofi, è ora il turno degli scrittori. Spero di mantenere alto il livello della rubrica: di essere cioè sempre acida, come si conviene.
A casa di un’amica c'era una serie di romanzi di autori di oggi sparsi in mezzo ai classici - gli ho dato una sbirciata, perché sul tema esordienti contemporanei sono pressoché del tutto ignorante, e non mi dispiacerebbe leggerne qualcuno - nonostante le tristi esperienze del passato, che mi hanno obbligata a una serrata cura ricostituente fatta di classici dell'Ottocento.
Ho trovato quest’espressione così irritante, che ho dovuto scaraventare immediatamente il libro al suo posto, non prima di aver gettato un'occhiata piena di disprezzo alla foto dell'autrice che, con gli occhi umidi e impregnati di letteratura, scrutava un improbabile orizzonte. In un attimo, ho visto tutta la letteratura stramazzarmi davanti. (Ma in fondo non ce l'ho con chi l'ha scritto. Ce l'ho con chi l'ha pubblicato).Così ho pensato ai luoghi comuni degli "scrittori". Mi fa sempre tenerezza vedere come la gente proprio non si rassegni a essere quello che è: si vuole essere speciali a tutti i costi, ma lo si fa sempre, irrimediabilmente in modo qualunque. Questo estratto di luoghi comuni ne è una prova.
- Scrivo di getto.Sottotesto: scrivere per me è la cosa più naturale del mondo, baby. Nel senso cioè, non è che stia lì per ore a sistemare una frase o a combattere alla ricerca della parola giusta. Flaubert mi fa un pippa: io sono oltre. Io c’ho il sacro fuoco della letteratura che mi avvampa “dentro”. Io ho la vocazione, voi no, non potete capire.
Presente quelle ricerche che dicono, il talento non è un dono naturale-divino, ma è il frutto di un’applicazione e un impegno continui? Gliene fornirò una copia. Concordo con chi dice che la scrittura sia una cosa molto poco naturale, che la scrittura sia una forma di artificio. Parole come lucidità, ragione, controllo, rientrano a pieno titolo, a mio modesto avviso, in quest'esperienza. Nulla di più lontano da questa concezione vitalistica della narrazione.Ho una brutta notizia per codeste persone. Scrivere di getto, molto spesso, è solo una forma camuffata di dilettantismo. E poi non riesco a dissociare l'espressione "getto" dall'immagine del vomito. Non credo che sia questo che generalmente s'intende con "letteratura".- Quando scrivo mi perdo. E io amo perdermi...Stranamente, questa frase l’ho sentita dire soprattutto da persone che prediligono la narrazione autobiografica nel senso deteriore del termine, in stile cioè anima bella contro le avversità della vita. Dove cioè “io” non si perde affatto, ma anzi, è il motivo principale della narrazione, meglio descrivibile come un esercizio di narcisismo spacciato per letteratura.
Per carità, noi siamo dalla parte del perdersi. La felicità ha probabilmente molto a che fare con l'esperienza del Subjektlos, del senza soggetto, del diluirsi nelle cose. Ma in primo luogo la condizione del senza soggetto è opposta per definizione a quella del narcisismo. In secondo luogo, lo stato di grazia da cui scaturiscono alcune migliori scritture è qualcosa di così complesso e raro che mi riesce davvero arduo attribuirlo alla gente a cui ho sentito usare quest'espressione. Davvero. Io ci provo, ma è più forte di me non ci credo.
Ovviamente non ce l'ho col narcisismo: ce l'ho col narcisismo che vuole presentarsi diverso da quel che è. Ho sempre preferito il narcisismo sfacciato al narcisismo dell'anima bella...- Io. Scrivo. Coi. Punti. Perché. Fa. Più. Fico.Il punto, in effetti, è il segno di punteggiatura più fico. Prendi un punto esclamativo e prendi un punto. Il primo è da bimbominkia entusiasti [si fa per dire, nda: io li uso spesso, hanno qualcosa di liberatorio!!!], il secondo è della gente tranchant, di quelli senza fronzoli capito, senza manfrine. Perciò, siccome voglio sembrare fico, ne metto tantissimi, perché più punti = più fico, semplice. Sto ancora cercando di comprendere il mistero cognitivo che sta dietro questo curioso passaggio inferenziale. Si crede di essere più fichi e di incrementare la suspance. Ma quel che ne scaturisce è niente di diverso da un tentativo abbastanza sgraziato di appioppare al proprio testo un ritmo che non ha. Avvertiamo come protagonista del testo l'autore stesso, segnatamente la sua ansia di essere fico. In tale contesto, la storia non è che il pallido sfondo di questo io che non riesce a contenersi, di questo io che rappresenta l'unica giustificazione del testo stesso. Il correlato vocale di questo modo di scrivere è senz'altro la voce impostata dell'attore che ha preso troppo alla lettera le istruzioni della scuola di recitazione, non so come dire.
Facciamo così su due piedi un esempio:
Quel giorno, si alzò dal letto con la fronte umida. Anna, si chiamava. Si guardò intorno. Cercava qualcosa. Non sapeva cosa. Si guardò allo specchio. Gli occhi arrossati. Il viso gonfio. Che succede, pensò. Prese lo spazzolino. Lavò i denti. Con energia. Qualcosa bruciava, lì dentro. Poi. Finalmente capì. Aveva l'influenza. Gliel'aveva attaccata lui. Il fratellino.La mancanza di stile non è qualcosa a cui si possa sopperire con un'inflazione di punti - e un testo non è una tessera del supermercato.
Ce ne sono molti altri, ma per il momento mi limito a questi. Data l'urgenza.