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Se Mary Poppins e Mago Zurlì vanno alle primarie

Creato il 24 giugno 2012 da Albertocapece

Se Mary Poppins  e Mago Zurlì vanno alle primarieAnna Lombroso per il Simplicissimus

Più futile di Veltroni, più sgangherato di Berlusconi, più scettico di D’Alema, più ipocrita di Giovanardi il tronista della Leopolda riemerge dai suoi amati anni ottanta con quella sua Weltanschauung paninara ed edonista, che sembra uno   che si scongela dall’ibernazione dopo vent’anni. E d’altra parte  l’”estate sta finendo e un anno se ne va sto diventando grande, lo sai che non mi va”, dice il suo testo di riferimento, e lui per coltivare il fanciullino che alberga in lui finisce per ricordare quei cinquantenni investiti dal rimpianto della giovinezza, che, non potendola vivere finiscono per imitarla con i pantaloni di pelle, il chiodo, gli stivaletti cavalcando una moto.   Effimero ed autoreferenziale, impersona a un tempo l’arrivismo rampante dei delfini di Berlusconi, l’istinto all’infantilizzazione dei ministri di Monti, il dinamismo localistico degli amministratori leghisti, insomma dentro alla sua formazione gassosa e immateriale come il neoliberismo per il quale non nasconde il suo desiderio di affratellamento, non c’è nulla, salvo l’imbottitura che sorregge la sua narrazione solipsistica di sé, fatta di figurine Panini, da Mago Zurlì a Bono, passando per De Gasperi, da Jovanotti – il suo Big Bang è l’unico che sembra apprezzare – a La Pira attraverso Mary Poppins,  o del suo background: scoutismo, calcetto, cursus da figlietto di papà nell’azienda familiare, non sempre virtuosa.

Uno così “antico”, uno così datato, non sa intercettare nemmeno l’antipolitica, figuriamoci interpretare ceti nuovi che irrompono,  società civile che si muove scontenta, fermenti più o meno apocalittici.

È che le due forme dai contorni indistinti e nebulosi che ieri si sono mandate messaggi trasversali,  sono esemplari di una politica passata dalla rappresentanza alla rappresentazione:  uno esplicitamente  volatile, indecifrabile nella vocazione e nella missione, in modo che possa andar bene per qualsiasi riconoscimenti identitario, per qualsiasi ambizione, per qualsiasi interesse;   l’altro inteso a dare una immagine virtuosa di organismo solido che vuole ristrutturarsi nella società civile, ma altrettanto “multivariato”, irresoluto eppure assertivo. Due macchine celibi: l’una intenta a accreditarsi come sommatoria aritmetica  di “un io che vuol essere noi”, egotica e accentratrice,  l’altro dimissionario dall’antica attitudine popolare di partito dei lavoratori, non si sa se per pudore, oblio,   inadeguatezza o puro istinto di conservazione. Ma i realtà omologhi se questo gioco di matrioske mutanti aspirano all’esercizio della stessa ingegneria organizzativa – a esempio in materia di primarie – tanto più articolata, barocca, labirinticamente strutturata quanto più i contenuti, i valori e i capisaldi programmatici appaiono rarefatti, poveri, forse sottaciuti, ridotti fino al limite del vuoto.

L’encomiabile proposito di Bersani di fare dell’ius soli la prima legge di un governo Pd la dice lunga, e non per l’immancabile benaltrismo, ma perché testimonia un interesse per i diritti universali a scoppio ritardato, quando la cittadinanza lungi dall’essere riconosciuta agli immigrati è stata misconosciuta e derisa anche per i nativi, come il lavoro per i lavoratori, la dignità per tutti.

Questi due agglomerati, come gli altri peraltro, sono il frutto della separatezza del ceto politico dai cittadini, della rottura di tutti i patti sociali, se restano vincolanti solo i sodalizi stretti dall’oligarchia, quello “fiscale” con cui si tollera  l’evasione in cambio di fedeltà, quello “finanziario”, il più potente e inalterabile, quello di mutuo soccorso dei potentati.

Quello degli inguaribili ragazzini, dei grandi fratellini, appiattito sull’ammuffito modernismo dell’egemonia privatistica, della pragmatica accettazione dell’insostituibilità del profitto, della desiderabilità di modelli consumistici e mediatici nei quali la comunicazione delle idee sostituisce le idee stesse. L’altro tenebrosamente remissivo nei confronti della teocrazia del mercato e  crepuscolarmente accondiscendente al  progressivo svuotamento della sovranità statale, dell’interesse generale, della tutela dei beni comuni.

Non a caso  il senso comune che il più delle volte non è buono ha fatto sua la persuasione che sia necessario o comunque preferibile rinunciare a certi valori e a certe garanzie, rese permeabili e sopprimibili  in quanto non sono più riconducibili a bisogni collettivi, consapevoli e condivisi. Che tanto non c’è   una classe, un partito, una moltitudine a rivendicarli, rappresentarli, difenderli.

Leader dimentichi,  divi della banalizzazione, politici proni al realismo o  opinionisti praticoni, tutti sono convinti e vogliono convincerci che la lotta di classe è morta perché non ci sono più i contendenti, ridotta a uno stereotipo frusto e arcaico, un vecchiume, un residuato della rivoluzione industriale. Dando così legittimità alla cancellazione di diritti e conquiste, ché tanto non si vedono manifestazioni di massa attribuibili a un “ceto” o partiti di peso elettorale o parlamentare che per statuto o programma li testimonino e difendano. E se le classi non sono “visibili” se  la loro lotta è indistinguibile se il loro sangue che scorre è solo morale, allora vuol dire che non esistono  più.

È inutile dirlo a Renzi, o a Grillo e ormai anche a Bersani, ma una classe c’è e si muove da invincibile, perchè le diamo spazio e potenza,  quella dei padroni, quella dominante e ancora più poderosa, quella  rapace e poderosa  “cupola” planetaria, fatta di grandi patrimoni, di alti dirigenti del sistema finanziario, di politici che intrecciano patti opachi con i proprietari terrieri dei paesi emergenti, di tycoon dell’informazione, insomma quella classe capitalistica transnazionale che domina il mondo e è cresciuta in paesi che si affacciano sullo scenario planetario grazie all’entità numerica e al patrimonio controllato e che rappresenta decine di trilioni di dollari e di euro che per almeno l’80% sono costituiti dai nostri risparmi dei lavoratori.

Qualcuno di loro aspira a farne parte, altri per oblio della propria storia non vogliono sentire. Siamo noi che ne facciamo parte che dobbiamo riscattarci da massa offesa, da classe misconosciuta per ridiventare popolo resistente e società civile.


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