La tesi di Terroni di Pino Aprile e l’antitesi di Terronismo di Marco Demarco per la prima volta si sono incontrate, (civilmente) scontrate e ne è venuta fuori la classica sintesi che dice: l’Italia del XXI secolo o sia fa con il Sud o non si fa. Certo, Aprile, che gioca a fare l’ingenuo – “Io sono un ingenuo: credo a ciò che leggo” - “coccola” il Sud, mentre Demarco, che dichiara apertamente che un giornalista ha il dovere di essere sospettoso se vuole capire, “frusta” il Sud. Tra coccole e frustate non c’è via di mezzo, a meno che non ci si ritrova in un bella sala di un palazzo di fine Ottocento a Sant’Agata dei Goti affollata da giovani che aprono e chiudono il confronto tra i due giornalisti ascoltando l’inno nazionale.
Ha iniziato Aprile spiegando che il successo di Terroni è scaturito dal fatto che “i lettori c’erano già prima e il libro li ha solo incontrati per raccontare loro la loro storia”. Ha continuato raccontando la storia di Pontelandolfo, della siderurgia calabrese pre-unitaria, dell’emigrazione e dell’economia nord-centrica. La palla è passata a Demarco che ha a sua volta spiegato perché “tu, caro Pino, sei riuscito dove altri hanno fallito: hai messo insieme per la prima volta i neoborbonici con i marxisti e con i cattolici che erano sì tutti accomunati dall’anti-risorgimento ma erano pur divisi”. E proprio il denominatore anti-risorgimentale è ciò che accomuna i leghisti che rivalutano i briganti e i sudisti che se la prendono con i piemontesi. “Una volta – ha raccontato il direttore del Corriere del Mezzogiorno - all’attuale ministro Maroni è stata rivolta la seguente domanda: ma lei tra il re Vittorio Emanuele II e il brigante Musolino chi butterebbe giù dalla torre? E il ministro leghista, memore forse della lezione del professor Miglio che aveva gli scaffali della sua biblioteca piena di testi dedicati al Mezzogiorno borbonico e al brigantaggio, rispose senza indugi: butteri il re e salverei il brigante”.
Questa visione della storia d’Italia, che è allo stesso tempo sudista e nordista, è l’esatto capovolgimento della nota frase di Massimo D’Azeglio che tutti noi impariamo a scuola, quella stessa scuola nei cui libri di testo – dice Aprile - “non c’è neanche un rigo sui morti di Pontelandolfo”. Bene, se D’Azeglio diceva “l’Italia è fatta, ora dobbiamo fare gli italiani”, il capovolgimento di questa cultura risorgimentale è “gli anti-italiani sono fatti, ora si tratta di disfare l’Italia”. Ma proprio qui c’è la sorpresa, ossia l’incontro tra Aprile e Demarco: la secessione sia che venga dal Nord, sia che venga dal Sud è un danno per tutti. “Noi siamo italiani e anche se non lo volessimo lo siamo lo stesso – ha detto Aprile - però è bene che i vinti e i morti del Sud siano riconosciuti anch’essi come padri della patria”. Tesi, questa, che Demarco accoglie “proprio perché l’unità nazionale è un valore per tutti: in 150 anni sono accadute cose straordinarie nel mondo e l’Italia, che è rimasta unita, è cresciuta tutta”. Tuttavia, le divergenze emergono quando ci si pone questa domanda: “Perché dopo 150 anni il Sud è diverso dal Nord?”. Qui le strade di Terroni e di Terronismo si dividono: il primo tende a dare risposte più rassicuranti – le “coccole” - ed a individuare avversari o nemici esterni al Mezzogiorno che hanno fatto sì che “gli italiani del Sud diventassero meridionali”; il secondo invece invita a “non rincorrere favole né a crearsi alibi” perché fino a quando “non faremo i conti con noi stessi e con la nostra classe politica e dirigente il Mezzogiorno continuerà a spopolarsi: non è attraverso l’auto-assoluzione né attraverso l’anti-leghismo che passa la crescita del Mezzogiorno”. Le distanze tra Terroni e Terronismo rimangono, ma la discussione tra gli autori chiarisce che cos’è, cosa può e cosa deve il Sud.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 30 ottobre 2011