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Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band

Creato il 25 agosto 2012 da Stanza51 @massimo1963
Nella più accurata biografia dei Beatles, a cura di Philip Norman (Shout! La vera storia dei Beatles) viene posta una domanda che suona un po' come una scommessa: c'è forse qualcuno che non ricorda esattamente il momento ed il luogo in cui ascoltò per la prima volta le note di Sgt. Pepper in quella lontana estate del 1967?
L'uscita del disco è di portata epocale. Forse solo lo sbarco sulla luna ebbe un impatto emotivo così profondo sulle assonnate coscienze di quella generazione di pre-sessantottini abituata a ballare spensieratamente sulle note di Elvis e sullo scanzonato beat inglese dei primi anni sessanta.
Anche io, sulla scia delle considerazioni di Norman, vorrei divertirmi con i miei lettori ponendo loro la seguente domanda.
Voi che come me non avete avuto l'opportunità di assistere in diretta all'uscita del disco, e lo avete ascoltato per la prima volta a distanza più o meno lontana dall'evento, avrete senz'altro avuto sensazioni diverse da quelle dei primi fortunati ascoltatori. Quali?
Io non posso certo rispondere per voi nè pretendere che le mie reazioni siano state simili alle vostre. Mi limiterò dunque a raccontarvi le mie personalissime impressioni.
Nel 1980 qualcuno mi regalò un disco di Adam and the Ants che trovai carino e nulla più. Me ne stavo steso sul divano con la copertina dell'album fra le mani. La giravo e la rigiravo. Ad un certo punto mi soffermai sul nome del gruppo: Adam e le formiche mi rimandò agli scarafaggi di Liverpool, gli insetti cosmopoliti per eccellenza, diffusi ad ogni latitudine del pianeta terra. Mi domandai: c'è più presunzione o modestia nel chiamarsi formiche (altro diffusissimo insetto) in contrapposizione alle nobilissime blatte inglesi? L'istintiva simpatia provata verso Adam and the ants mi fece propendere per la modestia. In fondo, la formica è molto più piccola dello scarafaggio. E così finii per interpretare la scelta del nome come un tributo alla grandezza dei Beatles.
Già. La grandezza dei Beatles. Di loro conoscevo le canzoni che conoscevano tutti: Yesterday, Michelle, Eleanor Rigby. Belle canzoni, armonie semplici ed evocative, testi al limite della banalità. Troppo poco per un ragazzo non ancora diciottenne, infatuato delle divinità genesiane, dei suoni sporchi dell'underground newyorkese, delle magie pinkfloydiane.
I Pink Floyd avevano appena pubblicato il concept album per eccellenza, The Wall.  Non una raccolta di canzoni,  ma un lavoro complesso costruito intorno ad un'idea di base: la vita come progressiva edificazione di un'imponente barriera tra uomo e uomo, nazione e nazione, sentimento e ragione.
Avevo sentito sempre parlare di Sgt. Pepper come di un concept album ma non avevo mai avuto la curiosità sufficiente per andatrlo a comprare. Adam e i Pink Floyd ruppero l'incantesimo e mi spedirono di filato verso il più vicino negozio di dischi.
Il primo ascolto di Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band avvenne senza particolari sussulti emotivi. Riconobbi With a little help from my friends per averla già ascoltata nella versione di Joe Cocker, mi accigliai un pochino difronte alla pesantezza degli archi di She's leaving home e storsi un po' il naso a metà di Getting better.
Tutto qui?
Il Muro era un'altra cosa per me: sonorità ricercate, pathos, anche alcune pregevoli finezze letterarie. Eppure, pensai, qualcosa dev'essermi sfuggito. Qualcosa d'importante che doveva avere a che fare con la Storia. Non la storia racchiusa nel disco: la Storia della Musica.
All'epoca non c'era Google che mi permettesse di consultare la hit-parade del 1967 per una verifica comparativa: la rivoluzione di Sgt. Pepper avrei dovuto capirla e accettarla con mezzi diversi.
Avevo un amico che collezionava Melody Maker, la famosa rivista musicale, sin dagli anni '60.
Mi rivolsi a lui.
Costui era parecchio più grande di me e, soprattutto, uno Zappiano incallito. Quando gli chiesi ragguagli sul panorama musicale del 1967, tirò subito fuori una copia del Melody dell'epoca e mi mostrò la prima pagina in cui campeggiava una foto di Zappa vestito da donna, con le gambe accavallate e due improponibili treccine. "Meet a mother!" era il titolo, con un chiaro riferimento alle Mothers of Invention. "Vedi - mi disse -Quest'uomo è un genio. Chiunque voglia conoscere davvero la musica, da lui deve partire e da lui deve tornare". Pensai che se gli avessi chiesto di Sgt. Pepper in modo diretto, mi avrebbe deriso per l'eternità. Il suo sarcasmo zappiano mi avrebbe ridotto a brandelli, povero diciassettenne amante del pop qual ero!
Decisi così di adottare un escamotage, un po' come fanno gli scrittori quando usano la terza persona parlando in realtà di se stessi. "E pensare - dissi - che il 1967 musicale è passato alla storia per un disco dei Beatles!". L'amico mise da parte il giornale, mi guardò dritto negli occhi e rimase così, in silenzio, per una decina d'interminabili secondi. "Quel disco cambiò tutto - ammise - Perfino me".
Capii che non avrebbe aggiunto altro. Feci allora un secondo tentativo. Tornai a casa, ripresi in mano il disco e lo appoggiai sul mio vecchio piatto Akai. Quando questo cominciò a girare, appoggiai con cura la puntina sul primo solco ed optai per un ascolto in cuffia. Erano le dieci di sera.
Fu come se si fosse aperto un sipario all'interno di un grande circo. Captai nitidamente, anche se in lontananza, il suono di uno strumento in fase di accordatura. Quando l'orchestra - ancora fra il brusio della folla - cominciò a suonare, io ero ormai dentro al tendone e capii che niente e nessuno sarebbero riusciti a farmi uscire da lì prima che la puntina si fosse sollevata dal disco.
Fu annunciato Billy Shears ed ebbi l'impressione che questo stesse cantando in playback. "In playback in un disco? Cosa diavolo sto pensando? Non ha alcun senso! - mi dissi".
Magie del circo. Anche quello felliniano creava suggestioni, ma aveva il vantaggio dell'immagine. Quello dei Beatles ti fa vedere attraverso i solchi sonori cose invisibili, come la locandina dello spettacolo (Being for the benefit of mr. kite) in cui viene assicurata la presenza del cavallo Harry che balla il Valzer. Ed anche l'ascoltatore inizia a ballarlo vorticosamente dopo il repentino passaggio dai 4/4 ai 3/4, scaraventato in una pista  rotante dove una miriade di cose gallegianti - abiti di scena, nasi da clown, nani e cilindri - disegnano cerchi sempre più veloci, finchè tutti improvvisamente si cade esausti e felici sulla terra che son soliti calpestare cavalli, tigri e leoni. Il tempo di rubare velocemente un gadget e poi di corsa si fa ritorno al posto che più ci compete: quello di spettatori composti ed attenti. Ed allora ecco che la soglia dell'attenzione si fa altissima quando l'orchestra intona il canto di Lucy (la figlia di Lennon o l'LSD?) che preferisce starsene in cielo con i suoi diamanti (forse una trapezista dal costume luccicante). Quel che è certo è che ne siamo rapiti e la seguiamo con lo sguardo rivolto verso l'alto. Lucy, la ragazza con gli occhi caleiodoscopici, ti chiama. Tu ti volti e lei scompare. Sempre ad occhi chiusi ascolti l'orchestra suonare Fixing a Hole, semplice e misteriosa. Sembra sempre sul punto di svelarti l'alchimia della semplicità e tu credi di poterla afferrare, ma è un'illusione. La stessa illusione di chi pensa di poter riparare un buco da cui entra la pioggia, impedendo alla propria mente di vagare.
Poi, improvvisamente, tutto si ferma.
Quando i primi accordi di A day in the life partono, lo spettacolo è finito. I musicisti hanno dismesso gli ingombranti abiti da scena, le luci si sono spente, gli spettatori hanno abbandonato il circo.
E' come se tutto, solennemente, tacesse. Eppure c'è una musica che si diffonde, ma lo fa su un piano diverso. Intimo.
Il brano descrive una sequenza di scene apparentemente inconciliabili: la morte di un uomo in un incidente stradale per non aver rispettato il semaforo rosso, la visione di un film sull'esercito inglese vittorioso in guerra,  un uomo in grave ritardo sul lavoro che è costretto a compiere a ritmo accelerato (e nella musica l'accelerazione del ritmo è sorprendente) le azioni rituali del mattino, il pettinarsi e far colazione. Ma è l'ultima strofa del brano a dare la definitiva dimensione del capolavoro all'intero album e, probabilmente, all'intera storia della musica pop.
Ho letto la notizia oggi
Quattromila buche a Blackburn, Lancashire
E sebbene le buche fossero abbastanza piccole
Hanno dovuto per forza contarle tutte
Ora sanno quante buche servono per riempire l'Albert Hall
Quattromila loculi per i soldati morti non accendono le coscienze dei responsabili della guerra. Nelle loro menti ottuse si genera un semplice parallelismo con i posti a sedere del teatro in cui vanno a seguire i concerti.
Avrei voluto raccontarvi del mio primo ascolto di Sgt. Pepper. Ho dovuto però aggiungere anche il secondo per darvi la reale dimensione delle emozioni che il disco mi suscitò.
Prendetela come una raccomandazione: mai fermarsi al primo ascolto quando si ha difronte un capolavoro.
Vorrei aggiungere, per finire, i miei più sinceri ringraziamenti ad Adam and the Ants, a The Wall , al mio vecchio amico zappiano ed alle casualità tutte, senza il contributo dei quali avrei probabilmente dovuto attendere ancora molti anni prima di ascoltare questo disco.


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