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Siamo gli ultimi ufficiali di Napoleone

Creato il 06 settembre 2011 da Casarrubea
Siamo gli ultimi ufficiali di Napoleone

Riccardo Orioles

Una lettera scritta da Riccardo Orioles a Giuseppe Casarrubea, in risposta ad alcuni interrogativi sui tempi che viviamo [siamo nel 2002, ma il discorso è attualissimo], sulla sinistra, sul futuro. L’ho trovata tra le mie carte private, e rileggendola non senza commozione, ho deciso di pubblicarla. Spero che l’amico Riccardo mi perdoni questa debolezza (GC).

Da: “ricc” [email protected] A: “Giuseppe Casarrubea” [email protected]. Oggetto: Re: Storia da rifare. Data: domenica 15 dicembre 2002 12.1 Giuseppe Casarrubea wrote:

Caro Riccardo,
leggo sempre con molto piacere le tue note su “Tanto per abbaiare”; ma tu non abbai alla luna: canti e sogni un mondo diverso. Perciò ti scrivo, dal versante di una cultura solidale, immaginando anch’io che uomini e cose possano avere storie nuove, prospettive senza vinti nè vincitori. Parlavo oggi di te con un amico che tra qualche mese lascerà il Nord per venire a vivere qui, nei paesi dove per cinquant’anni operò Danilo Dolci, l’intellettuale italiano più processato del secondo ’900, morto nel ’97. Ebbi la fortuna di conoscere Dolci per quarant’anni e credo di avere imparato da lui almeno due cose importanti. La prima: la comunicazione di massa non esiste; la seconda: non separare mai l’esercizio intellettuale dall’azione sociale. Sai bene che non sono due questioni ovvie o marginali. Nel primo caso anche per la questione che  sollevi sulla vicenda Espresso-Repubblica,  nel secondo perché questa azione è il terreno debole di tutta la sinistra. Uso il termine sinistra consapevole che molta memoria si è perduta e quella che rimane rimanda solo a qualche data congressuale, che, francamente, non credo valga la pena ricordare. Mi preme invece constatare la deprivazione continua di senso delle cose che in questa sponda si fanno, come se queste non avessero più riferimenti cardinali, come se si fosse smarrita la bussola. Prendi il caso della prima strage di Stato del ’47 (Portella della Ginestra, 1° maggio: 11 morti e 30 feriti). Ti pare poco che al segretario dalemiano dei Ds di Sicilia quella tragedia non interessi nulla? Ti pare poco che molti giovani della cosiddetta sinistra militante non sappiano dove si trova e che cosa possa evocare quel luogo? Quando andavo a trovare Danilo, nel suo studio di largo Scalia a Partinico, nei primi anni Sessanta, leggevo dietro la sua scrivania dei titoli di dazebao che egli stesso affiggeva periodicamente bene in vista in alto sulla sua testa: ‘Chi ha ucciso Leonardo Renda?’, ‘Che successe nel baglio dei Parrini?’ Nessuno poteva dare una risposta, tanto più che le domande erano assolutamente specifiche. Allora ero poco più che un ragazzo e quelle domande mi incuriosivano molto perché mio padre, dirigente sindacale comunista, era stato ucciso dopo i fatti di Portella negli assalti contro le sedi della sinistra avvenuti  il 22 giugno ’47. Ritenevo straordinaria la figura di un uomo, venuto da una cultura mitteleuropea, che si interrogava sui morti, quando persino nelle sedi dei partiti che più si sarebbero dovuti interrogare,  quelle domande erano tabù. Perciò queste diventarono un mio chiodo fisso e, sapendo che Danilo non dava riposte, cominciai da allora a tentare di darne qualcuna per conto mio. Così, in vista del 50° delle stragi del ’47, accelerai i miei lavori e mandai i risultati della mia ricerca
a Franco della Peruta, direttore della collana di storia contemporanea dell’editore milanese Franco Angeli. Per i  suoi tipi uscì allora il mio libro ‘Portella della Ginestra. Microstoria di
una strage di Stato’. Costo: una querela per diffamazione da parte di un generale dei CC. , della benemerita Arma. Il 31 gennaio ci sarà l’udienza (ex pretura di Partinico). E che Dio me la mandi buona. Che voglio dirti? Anche le nostre storie sono a noi stessi sconosciute e frammentate e […] rischiamo tutti di passare per fanatici battisti, come ai tempi di Giovanni, di biblica memoria. Con una variazione: siamo testimoni di verità perdute.

Caro Giuseppe,

ti ringrazio di avermi scritto. Ti prego di perdonarmi se ti rispondo così in fretta, ma davvero non sto bene. Non sono verità perdute: piuttosto addormentate, ma addormentate come la principessa della fiaba, in attesa di un bacio che le risvegli e le ridia a tutti. Giro moltissimo per l’Italia, di questi tempi, e credo che abbiamo ormai superato largamente il punto peggiore. C’è molta sinistra in giro, soprattutto fra i ragazzi. Non si concretizza e non si vede 1° perché manca del tutto una sinistra politica 2° perché l’ignoranza (in senso tecnico) oggi è tale che ogni passaggio da un gradino all’altro è faticosissimo e lento (ma proprio per questo ancor più commovente). Ma io ho fiducia in loro; fiducia razionale. C’è un personaggio interessantissimo, nella letteratura del primo Ottocento, ed è l’ufficiale di Napoleone (Balzac, ma anche il feuilletton: Dumas, per esempio). Un signore sulla cinquantina, ingrigito ma dritto, che se ne va in giro con la sua povertà militare, vecchie decorazioni sovversive all’occhiello, un bastone da passeggio che porta come una spada, l’occhio vivace, il sarcasmo. Egli non sa quasi più nulla di politica, oramai. Sa soltanto che
allora il popolo vinceva, che i borbonici sono dei tipi grassi tutti venduti agl’inglesi e non c’è pace possibile con loro; ama appassionatamente il suo paese.

Ogni tanto s’incrocia coi Courfeyrac, coi Marius, coi compagni nuovi. Non sa nulla di socialismo, e come potrebbe saperne? ma trova istintivamente in quei giovani qualcosa di ben conosciuto: e, da lontano, sorride. Egli non sa, o forse intuisce, che il suo ruolo politico in senso stretto è finito; sente invece benissimo, con tutta l’anima, un dovere: che è quello di testimoniare, a quelli che ora crescono, la dignità. E in questo pensiero s’allontana, bofonchiando contro i realisti e mugolando fra sé vecchie marsigliesi.


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