Federica Melis. Nella suggestiva capitale scozzese, fra leggendari castelli e selvaggi fiordi, ritorna dal 3 al 27 agosto l’attesissimo Edinburgh Fringe Festival. Giunto alla sua sessantacinquesima edizione, vanta il primato di maggiore festival di arti performative al mondo: oltre 2.500 spettacoli distribuiti in più di 260 locations e messi in scena da artisti provenienti da oltre 60 nazioni. Evento dal carattere -come gli stessi numeri da capogiro attestano- assolutamente fuori dell’ordinario così come il programma che, spaziando dal teatro d’opera agli spettacoli di strada, ricalca il contrasto urbano fra antico e moderno fino a fonderlo nel proprio DNA. Armonico contrasto che si ripete anche nelle partecipazioni artistiche: non solo un palco collaudato e prestigioso per le celebrità, ma anche una vetrina d’eccezione che punta i riflettori su talentuosi artisti emergenti. In questo strabiliante contesto, approdano dall’Italia, gli spettacoli di due personalità emergenti della giovane danza d’autore italiana contemporanea: A Corpo Libero e Suite-Hope presentati rispettivamente dalle coreografe e danzatrici Silvia Gribaudi e Chiara Frigo. Unite dalla provenienza geografica -entrambe sono venete- le due artiste condividono anche la stessa missione: comunicare. “In questo momento il mio interesse verte molto sulla comunicazione- spiega Chiara Frigo – cioè sul rendere comunicativo un lavoro. Ritengo che sia responsabilità dell’artista comunicare qualcosa; non necessariamente qualcosa di importante, ma qualcosa di vero, di onesto, di più o meno intimo”. Un compito che lungi dallo svolgersi sotto una prepotente spinta moralizzatrice, non mira tanto all’educazione dell’uomo, né a sostenere la dicotomia giusto-sbagliato, quanto a liberare l’arte sia dal gravoso onere precettistico, sia a sventare il pericolo della vacuità del solo involucro, affidando all’artista la responsabilità di essere vero, onesto e intimo. Attrice, danzatrice, video maker, laureata in biologia molecolare, Chiara Frigo è seguita con attenzione dal 2006, da quando destò l’attenzione con Corpo in doppia elica. Qui era il corpo a trasformarsi in un’elica di Dna, a diventare mattone della vita, a evocare la sensazione del nascere e del morire in un continuo alzarsi per poi accartocciarsi, scomporsi e ricomporsi. Il connubio danza e scienza prosegue anche nei successivi lavori:Takeya, tema la velocità, come etimologicamente richiama il titolo scelto, e Nonsostare, gioco di parole per indagare il movimento. Nel frattempo l’artista vince, oltre a numerosi premi italiani e internazionali, una residenza a La Caldera di Barcelona e il bando Reform/Dance al Pim off ed infine Suite-Hope, finalista del Premio Prospettiva Danza Teatro 2011 e appena selezionato tra i finalisti 2012 di Aerowaves Dance Across Europe . Suite-Hope, spettacolo per due interpreti e un popolo di carta, come recita il sottotitolo, svolge un’indagine sul tema della speranza e della sua attualità nella società contemporanea. Si parte da un esodo, da un viaggio che rappresenta una necessità connaturata e, dunque, comune a tutti gli uomini di trovare un luogo di esistenza possibile. Insieme alle due interpreti (Chiara Frigo e Marta Ciappina) appaiono in scena alcune sagome umane fatte di cartone (il popolo di carta) che sembrano possedere vita propria: cadono, si rialzano, si allineano e poi nuovamente si scompongono. La speranza, legata al corso della vita, inevitabilmente diviene ciclica. Un viaggio segnato da due curve complementari che paradossalmente nell’unione posseggono due direzioni e due versi opposti. Un incontro e un addio, perché nella vita nulla accade senza separazione; come ben rappresentano le due performer spogliandosi delle numerose magliette, ognuna recante un’icona dell’umanità, da Lenin a Che Guevara, da Marylin Monroe a Martin Luther King, finchè non rimangono che Chiara Frigo e Marta Ciappina, ognuna icona di sé stessa. Per trovare la propria strada dobbiamo liberarci, quindi, della finta sicurezza celata nell’appartenenza e nell’omologazione, imparando a ritrovarsi anche nella solitudine.
Silvia Gribaudi, coreografa, danzatrice e docente di danza all’Accademia Teatrale Veneta, è autrice numerose creazioni performative: Un Attimo, 2008 ; Wait, 2011, dove il tema è l’attesa; Non è mai troppo tardi, 2011, progetto in forma di laboratorio destinato alle donne over 60 non professionalmente coinvolte nell’ambito della danza e che indaga i temi dell’identità femminile; Toys? Move On, 2012, progetto di Art in Action nelle città in cui il pubblico viene invitato ad agire su un percorso ispirato all’articolo 4 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo; del 2009 è invece A Corpo Libero, rappresentato con un successo di oltre 80 repliche a livello nazionale e internazionale, vincitore del premio pubblico e critica GD’A Veneto 2009, selezionato in Anticorpi XL 2010 e Aerowaves Dance Across Europe. A Corpo Libero, affronta un tema che gioca un ruolo fondamentale nella società contemporanea, quello dell’immagine corporea, e la Gribaudi, con sorprendente ironia, si diverte a svelarne il grande paradosso. Perché se da un lato sembra condividere l’idea di subire in modo inconscio l’abilità di pochi iniziati che celano la donna in immagini segretamente codificate -prendendosi gioco di un’ingenuità tutta al femminile-, dall’altro appare chiaro che, in questa passività, vi sia una presa di coscienza: l’immagine passa attraverso filtri soggettivi che attivano letture in termini storici, culturali, psicologici più o meno interiorizzati. Ecco perché una donna con un corpo inadatto alle pagine patinate di una rivista, che non entra nelle taglie del canone tradizionale di bellezza, dopo una lotta con un vestito troppo corto e troppo stretto o che ostinato che non vuole assolutamente saperne di coprire gli inestetismi lipidici su cui si concentrano le attenzioni di una società fatta di cliches, cerca di domare, con ostentata forza, una stoffa dotata di disobbedienza intelligente. Ma la lotta cessa, e quella stessa stoffa, prima acerrima nemica dall’elastico sfuggente, diviene poi complice di un gioco, di una danza portatrice di una spontaneità perduta, finché in questo meraviglioso rituale d’accettazione anche la stoffa diviene di troppo e finalmente il corpo si scopre rivelando sé stesso.