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sinceramente

Creato il 07 dicembre 2013 da Gaia

E alla fine ho scoperto di essere un personaggio scomodo – per me stessa. Ho capito che quello che prima temevo, ma vagamente, ora succede: ci sono persone che hanno sentito il mio nome e letto il mio blog e preferiscono tenermi alla larga per paura di ritrovarsi sputtanati o perché non gli piace quello che scrivo.

Ci avevo pensato, tempo fa, riguardo alla questione della notorietà. Tutto quello che facevo, dalle proteste al giornalismo, alla scrittura, poteva portarmi verso una maggiore notorietà. La notorietà può significare riconoscimento, aiuto, guadagno: tutte cose di cui ho bisogno. Se l’avessi raggiunta, però, le persone avrebbero conosciuto la mia faccia e il mio nome, e sarei valsa meno come osservatrice. Qualche potenziale osservato si sarebbe allontanato dal mio sguardo.

Ora sono un poco, ma non tanto, più nota di prima, e cominciano i problemi.

Non aiuta che quello che faccio sia così ibrido. Come devo presentarmi? Non nascondo a nessuno di avere un blog, che ha il mio nome e cognome, ma un blog cos’è? Davvero: cos’è?

Un giornalista si presenta come tale; ma io non sono più una giornalista. Inoltre, il giornalista solitamente non collabora a ciò che racconta ed è obbligato, anche se non sempre, a una pretesa di imparzialità: io come “blogger” sono onesta ma non imparziale – mi sono dovuta creare un’etica diversa per quello che facevo come giornalista rispetto a quello che scrivo liberamente sul blog. E mi sono fatta parecchi esami di coscienza, interrogandomi su questa mia ambiguità.

Ci sono dei giornalisti, forse i migliori, che sanno immergersi in quello che raccontano, prendere parte, eppure raccontare verità. Spesso si tratta di giornalisti scrittori, spesso raccontano qualcosa che hanno fatto prima che qualcuno li prendesse sul serio (e perdono amici), oppure, suppongo io, hanno una fama tale che li protegge dal rischio di insuccesso.

Lo scrittore è quello che ruba dalle vite altrui per dar da mangiare ai suoi romanzi. Lo sanno tutti. Ma il romanzo protegge, trasforma e trasfigura. Io ho avuto i miei bei problemi nonostante questo: parenti, amici e conoscenti si cercano nei miei libri, e magari si trovano, si risentono e forse si addolorano. Io penso che opportunismo, indiscrezione e forse anche una forma di slealtà siano indispensabili per il buon scrittore. Non può essere altrimenti. Le persone vogliono mostrare il lato migliore di sé ma vogliono anche leggere del lato peggiore degli altri.

Orhan Pamuk, a quanto ho letto, a proposito delle questioni sorte in famiglia riguardo a un suo libro decise che la priorità era che il libro fosse bello. Altro non so, ma di sicuro è difficile dare un dolore alla propria famiglia – anche per chi ne ha subiti. Inoltre esistono persone molto permalose.

Ci sono romanzi che raccontano di altre persone cambiando solo i nomi e altri più discreti. Io cerco di scriverne della seconda categoria, anche se chi mi conosce mi sgama subito. D’altronde, il mio obiettivo primario non è dissimulare. Comunque, mi sono data delle regole: nessuna persona compare pari pari nei miei libri, a meno che non lo chieda. Ho assecondato una sola richiesta di questo tipo, per un personaggio secondario e da parte di una persona che conoscevo bene, e comunque anche in questo caso le circostanze erano inventate. Cerco anche di non copiare, ma alle volte fatico a trovare il confine tra raccontare la realtà in forma di narrativa, e copiare. In fondo, viviamo nello stesso mondo che raccontiamo.

Notare che bisogna stare attenti e darsi regole prima che i libri abbiano, eventualmente, successo – bisogna prendersi sul serio anche se gli altri potrebbero non farlo mai.

Sono anche molto discreta nel blog: parlo di me ma mai di gusti specifici, persone vicine, famiglia (se non per circostante anagrafiche o socioeconomiche facilmente verificabili). Evidentemente non basta. Ogni singola affermazione riguardo a una conversazione a cui ho partecipato può offendere; ogni singola critica a un comportamento riguarderà almeno uno dei miei conoscenti che lo tiene.

A nessuno piace trovarsi descritto a tradimento, ma io non posso avvertire tutti di ogni minimo commento che li riguarda e che pubblico.

Ho appena parlato con una persona del “veterocomunisti” che ho dato in un commento ad alcuni dei volontari di Rifondazione: lo leggeranno mai? È offensivo? Ci rimarranno male? Le parole hanno anche una loro ambiguità: per me un veterocomunista è una persona che crede in qualcosa – ma a nessuno piace sentire il termine più dispregiativo che definisce il proprio ideale.

Non posso presentarmi come giornalista, dunque, e quello che scrivo non è solo romanzato ma anche letterale. Sono in una situazione difficile. Peggio ancora, nessuno mi paga per il blog e per vendere libri devo dipendere dalla stessa notorietà che poi mi si potrà ritorcere contro. E come se non bastasse, essere conosciuta non aiuta necessariamente a vendere i libri, la mia unica fonte di reddito legata alla scrittura: uno può leggere volentieri il blog ma non se deve pagare, oppure può apprezzare la mia prosa ma non i miei romanzi. In un certo senso, rischio cento per avere uno. Uno potrebbe dirmi: trovati un lavoro. Ma io adesso vorrei che questo fosse il mio lavoro. Se non può esserlo, è solo per due motivi possibili: uno è che mi manca una o più delle qualità necessarie per farlo, e allora è inutile protestare; l’altro è che dipendo per il mio successo da persone che hanno qualche motivo al di là della qualità per non volermi sostenere. Sto ancora cercando di capire quale dei due è il mio caso.

Il paradosso è che io sono una minaccia perché mi presento a volto scoperto. Nota o meno, una persona che si palesa come faccio io susciterà sempre diffidenza. Ricordo quando ero in val Susa la prima volta, da sola e sconosciuta a tutti: ho incontrato tanta disponibilità e fiducia ma anche dei sospetti. Chi è questa qui? Perché si muove con tanta incoscienza? C’era chi non si fidava di me perché non avevo paura di niente. Neanche dei poliziotti. Poi ho perso quest’innocenza ma ho fatto l’errore di dire come.

Questo post non è solo uno sfogo, perché se così fosse dovrebbe rientrare in quell’ulteriore categoria di scritti che uno si tiene per sé. Il suo senso è la riflessione su quello che sta dietro a ogni cosa che leggiamo. Non si può scrivere niente senza essere presenti, ma più a fondo andiamo più abbiamo bisogno della fiducia altrui, e più a fondo andiamo, più chi ci parla avrà paura.

In inglese esiste l’espressione fly on the wall, mosca sul muro, per esprimere il desiderio di assistere a una scena non visti. Noi esseri umani non siamo mosche, ed è quasi impossibile scomparire; l’osservatore altera l’osservato, e il sapersi ascoltati, e da chi, altera il comportamento. Dopo anni di rimproveri ho imparato a fare attenzione a quello che dico al telefono, anche se l’unica cosa di illegale che faccio è andare in bici contromano ogni tanto, per ridurre il rischio di essere investita.

Quando finiamo sul giornale, ci accorgiamo quasi sempre che la nostra storia è raccontata sbagliata, ma quando ci finiscono gli altri, tendiamo a credere a quello che leggiamo. In generale ci ricordiamo di non credere solo quando siamo costretti o ci conviene. La realtà mediata non può che comporsi di tante voci, di cui una corregga i pregiudizi dell’altra, e io sono sempre stata felice di contribuire con la mia. Ora mi sono accorta di aver parlato troppo forte.


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