Magazine Opinioni
di Giuseppe DenticeDa mesi l'intero mondo arabo è sconvolto da rivolte popolariche al grido di “Kifaya” stanno rimodellando la società e gli assettipolitico-istituzionali delle nazioni del Maghreb e del Vicino Oriente. “Kifaya”è una parola araba che significa “basta”, “è abbastanza”, “nonne possiamo più”. Questo vocabolo è diventato lo slogan di tutte le rivoltearabe in atto. Kifaya è diventata la parola d'ordine delle rivolte anchein Siria. La Siria, che in questi giorni è pervasa da movimentianti-presidenziali, incontra dopo anni di silenzio una grande marcia diprotesta, scoppiata in ogni angolo del Paese e nel quale il popolo, un po' comeavvenuto in Egitto contro Mubarak, rivendica contro il potere corrotto“democrazia, libertà e dignità”.
La Siria non è particolarmenteevoluta all'interno del contesto del Grande Medio Oriente, ma è un Paese dotatodi un esercito molto potente e di un sistema di repressione e controllo tra ipiù efficienti dell'intera regione (i mukhabarat siriani, i servizisegreti sono tra i più spietati ed efficienti). Il Presidente Bashir al-Assadha 34 anni e quando assunse le redini del Paese il 17 luglio 2000, alla mortedel padre Hafiz, il “Leone di Damasco” e padre-padrone per trent'anni della“moderna Siria” (1970-2000), aveva la fama di grande riformatore e, anche alivello internazionale, le speranze su questo giovane Presidente erano tante.
Sotto la sua guida, la Siria non haconseguito grossi passi in avanti, né sul piano delle riforme politico-sociali (riformadel sistema politico e multipartitismo) né sul piano delle riforme economiche(taglio dei tassi di interesse attivi, apertura di banche private e alcommercio internazionale, consolidamento dei tassi di cambio multipli,istituzione della Borsa di Damasco) né su quello della libertà di espressione(possibile revoca della legge di emergenza, attiva fin dal 1963 e maideclinata, controllo quasi totale di tutti gli organi di stampa e dei media).Di questo immobilismo soffre anche l’economia del Paese. Infatti, la crescitaeconomica siriana è rallentata a 1,8% nel 2009 a causa della crisi economicaglobale. L'inflazione è cresciuta vertiginosamente (5.9%) così come ladisoccupazione (8.3%); inoltre il 50% dei posti di lavoro sono nel settorepubblico e restano appannaggio delle elites militari e del PartitoBaath. La Siria non è un Paese petrolifero e ha, quindi, un'economia nonparticolarmente forte, ma rappresenta la nazione più avanzata tra i Paesi delMashreq. Inoltre la Siria è anche il più importante antagonista di Israele,tanto da reclamare, dal giugno del 1967, la restituzione dei territori delGolan, illegalmente occupati da Israele in seguito alla guerra dei Sei Giorni.
La Siria è gestita con il pugno diferro da una claque politica che fa direttamente capo al Presidente; ma,in realtà, Bashir al Assad è solo la faccia di questo gruppo di potere daproporre al Paese. Le leve del potere sono in mano ad un gruppo di militari (sidice non siano più di una decina di persone) imparentati con la tribù alawitadegli Assad che controlla i tre reparti speciali dell'esercito, le quattroagenzie di Stato dedite alla repressione delle forme di dissenso contro ilregime e che, infine, controlla anche gli stessi vertici del partito Baath, dicui il padre di Bashir ne fu prima un importante esponente fin dal 1963, ma chepoi asservì completamente al suo potere personale grazie al colpo di stato delnovembre del 1970.
Dal 2008, la Siria di Assad è tornataad essere, gradualmente, un interlocutore privilegiato per gli europei e pergli Stati Uniti, divenendo, quindi, un attore chiave per la risoluzionepacifica delle controversie mediorientali. Nonostante questo tentativo diriabilitazione, la Siria non ha mai rinunciato ad abbandonare la sua solidaalleanza strategica con l’Iran, ma ha anche migliorato il legame con la Turchiae a mantenere stretti rapporti con le fazioni radicali palestinesi a Gaza(Hamas in primis) e con il movimento sciita libanese anti-israeliano diHezbollah. La Siria non ha mai rinunciato alla propria influenza sulla gestionepolitica del Libano, ritenendola da sempre parte integrante del disegnopolitico e storico della “Grande Siria”. Nel corso del 2010, inoltre, Damascoaveva ricucito con Riyadh una delle più gravi e storiche fratture politichenell'area in funzione di mantenimento dello status quo regionale perevitare inutili tensioni tra gli Stati arabi del Vicino e del MedioOriente.
Chiarito il quadro, la domanda chesorge spontanea è questa: chi ha interesse alla deflagrazione politica dellaSiria? Probabilmente nessuno. I motivi sono molteplici. Israele pur essendoavvertito come avversario, è stato paradossalmente il più fidato alleato nellaregione, anche perché dopo il 1973 il confine conteso del Golan è forse tra ipiù sicuri dell'area. L'Iran, storico alleato siriano, è poco sensibile aicambiamenti. Sulla stessa linea anche l'Arabia Saudita, pur non essendo irapporti con questa tra i migliori della regione. Anche la Turchia, come glialtri Stati della regione, è interessata al mantenimento dello status quo.Dunque una Siria instabile non interessa a nessuno, anzi preoccupa tutti per ipossibili risvolti interni. Anche gli Stati Uniti, che hanno sempre ritenutoDamasco uno dei principali finanziatori del terrorismo internazionale, sonopreoccupati per il possibile effetto domino nel Vicino Oriente e lavorano,segretamente, per mantenere stabili gli Assad in Siria.
Quindi cosa rappresenta questarivolta? Probabilmente è più una rivolta popolare spontanea natadall'insoddisfazione per la scarsità di democrazia e libertà che una vera e propriacongiura internazionale ordita dai vicini israeliani (agenti del Mossadeffettivamente si sono infiltrati nelle rivolte di Daraa nel Sud del Paese, mala loro presenza non sembra destare preoccupazioni in quanto sembrano piùdediti al monitoraggio che alla partecipazione attiva) o dagli stati arabinemici (Arabia Saudita e Giordania), come annunciato dal Presidente in suorecente discorso pubblico. Anzi, mutuando un termine più riferibile aiTerritori Occupati Palestinesi, si potrebbe parlare di intifada siriana,appunto di rivolta, di sollevazione di popolo.
L'ultima rivolta di un certo spessorein Siria risaliva al 1982, quando l’allora raìsHafiz al-Assad non esitò a ricorrere all'esercito per reprimere nel sanguela ribellione armata dei Fratelli Musulmani, asserragliati nella città di Hama,nel Nord. A differenza degli altri Paesi coinvolti in rivolte, in Siria nonesiste una vera opposizione né politica, né civile. Allo stato attuale gliunici oppositori possibili sono i Fratelli Musulmani (ma ridotti al minimostorico), né tanto meno all'orizzonte esistono avversari degni di sfidare ilpotere dell'esercito. L'unica novità sembra provenire dal popolo che, forse,grazie ai suoi giovani è sembrato definitivamente svegliarsi dal quel torporeinsolito per un Paese culturalmente avanzato, che è stato per anniun'importante vedetta per i vicini Stati arabi.
La popolazione siriana si è risvegliadalla narcosi a cui si era abituata da decenni e per la prima volta dopo tantianni ha messo in discussione la legittimità interna del Presidente Assad. Leproteste, sorte nel Sud a Daraa (ironia della sorte città natale degli Assad) eLatakia, dopo due settimane sono state brutalmente represse dalle forze disicurezza siriana. La mobilitazione ora è finalmente giunta a Damasco,scatenandosi in forme più violente anche rispetto alla regione meridionaledell’Hawran, dove è sorta, e alle altre principali città del Paese (Homs eAleppo). Per “riportare l’ordine” nel Paese, il Presidente ha deciso dischierare i reparti dell’esercito regolare, mentre il governo si riunivad'urgenza nel palazzo presidenziale, venendo dimissionato. Il Presidente Assadha preso la situazione in mano in prima persona e in un discorso di qualchegiorno fa al Parlamento di Damasco ha fatto promesse di rinnovamento, oltre a tirarein ballo la solita logica del complotto, ormai una consuetudine di tutti ipersonaggi coinvolti nelle rivolte in corso, da Ben Alì a Gheddafi.
La panacea prescritta dal Presidente,però, pare non aver fermato le proteste che, invece, hanno acquisito nuovevigore tanto sull’onda delle altre mobilitazioni regionali, ma anche esoprattutto a causa del profondo e radicato senso di sfiducia della popolazionesiriana nelle proprie autorità e nella loro reale mancanza di volontà diriformare davvero il sistema, nonostante il continuo richiamo del regime e deimedia ufficiali alle islahat (leriforme). A questo si deve aggiungere un profondo sentimento di frustrazione erabbia per la corruzione dilagante e per la continua arroganza del potereborghese della capitale contro le città tribali delle periferia siriana, che simanifesta in molteplici forme di repressione, piegando duramente qualsiasisembianza di libera espressione politica. Non ultima la mancata ricezione diuna delegazione tribale della città di Daraa che chiedeva di parlare con ilPresidente per risolvere il problema della siccità che affliggeva la regionedell'Hawran.
Al momento si può scongiurare ilrischio guerra civile, anche perché le principali minoranze confessionali(drusi, armeni, cristiani) ed etniche (curdi) del Paese, si sono tenute fuoridagli scontri temendo nuove future rappresaglie nei loro confronti da parte diun regime mai molto benevolo nei loro confronti. Ma gli alleati del Presidentetemono proprio il rischio guerra civile, che potrebbe essere favorito dalle riformepromesse da Assad figlio, sempre che si facciano. Il regime, quindi, stalavorando strenuamente al ripristino dello status quo ante all'internodel Paese e in suo favore trova, appunto, l'appoggio di tutti gli altri Statidella regione poco propensi a creare ulteriore confusione politica, anche acosto di andare contro la piazza. Ad ogni modo quello che il regime sembra nontener conto è l'esasperazione della popolazione ormai stanca e poco propensa acedere dinanzi all'ennesima promessa. A questo punto non si può più tornareindietro. O si fa la rivoluzione o si tornerà alla peggior restaurazionepossibile. * Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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