Staccare la spina. Grossomodo così ha titolato il Messaggero qualche giorno discutendo della “comunicazione lenta”. Provare a sconnettersi, a scollegarsi dal web per vedere l’effetto che fa. Emanciparsi, dunque, da pc e smartphone, chat e messaggini, social network e valanghe di informazioni, per ossigenare la mente. In palio, tanto per John Freeman che ha lanciato il manifesto della Slow communication sul Wsj già nel 2009, quanto per Andrea Ferrazzi che è il leader italiano del movimento, c’è la bellezza del pensiero lumaca. Raffinatezza e profondità di argomentazione cui inevitabilmente si abdica pensando e parlando fast e che, invece, possono essere riattivate se prendiamo tempo. L’invito offerto dall’iniziativa è categorico. In inglese: Don’t send. Non inviare email, post, sms e così via. I comunicatori lenti dicono di non avercela con la tecnologia, non sono dei nostalgici di penna e calamaio, non rinnegano l’hi-tech ma credono che i mezzi siano da usare con parsimonia e quando davvero necessario. Così da non identificare la vita reale con quella virtuale. Fin qui, il quadro della Slow communication. Lascio ad altri le considerazioni relative al rapporto fra sviluppo tecnico e comunicazione e, sempre, altri facciano i dovuti commenti sulle nuove tecnologie: se sono buone o sono cattive oppure se semplicemente esistono, dunque, conviene farci i conti in maniera costruttiva. Vorrei invece soffermarmi sull’aggettivo ‘slow’. Lento. Freeman e Ferrazzi ci aiutano a ricordare un carattere saliente del pensiero umano. Torna vivo un celebre passo contenuto nelle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin. “Proprio del pensiero non è solo il movimento delle idee, ma anche il loro arresto”. Quando la mente rallenta i giri e si ferma, respira, essa produce una “costellazione satura” che si “cristallizza” in idea, in pensiero pensato. Magari perfino profondo e raffinato, ultima voluta della spirale del ragionamento.
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