Magazine Poesie

Sogno svedese 01 (di Valerio Pierantozzi)

Da Villa Telesio

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Siamo io e Matteo in una sorta di vecchia prigione, un edificio di quelli fatiscenti con grandi locali spaziosi e aperti all’interno, un incrocio fra un magazzino e una prigione. Insomma stiamo lì che cerchiamo allo stesso tempo di nasconderci e di scappare dall’edificio, perché c’è una forza militare che si sta impossessando della prigione per uccidere tutti quelli che sono all’interno.

Lo scenario è simile a quello che può essere una guerra civile, con noi “civili” all’interno e questa forza – che non è assolutamente una forza militare regolare, ma solo gente vestita con abiti verdi e le armi, un sacco di armi – che cerca di fare piazza pulita di tutto.

Incrociamo un gruppo di persone che vuole uscire all’esterno, ma non siamo d’accordo con loro sulla direzione da prendere e quindi li lasciamo andare. Noi ci barcameniamo di qua e di là, nascondendoci dietro ogni pilone e ogni cumulo di macerie. Sentiamo delle esplosioni fuori e capiamo all’istante che i paramilitari stanno per entrare armi in pugno e che il gruppo che avevamo incrociato prima è inevitabilmente stato ucciso.

I militari entrano e come nelle più terribili guerre civili non fanno altri che cercare persone da fucilare, rovistando dietro e sotto ogni maceria, sparando qualche colpo ogni tanto. Ci nascondiamo e ci acquattiamo per terra, per evitare pallottole vaganti. Cambiamo locali e cerchiamo a tentoni di trovare la direzione per la libertà, ma è difficile senza avere una precisa idea della pianta dell’edificio.
Ci spostiamo di qua e di là senza sapere bene dove andare e quindi alla fine ci beccano: sono sadici, sorridono in maniera sardonica e si capisce senza ombra di dubbio che vogliono, anzi, bramano per ucciderci.

Ammucchiano tutti i prigionieri in un grande stanzone, seduti su delle sedie da scuola elementare mentre loro stanno lì con i mitra a presidiare perimetro e uscite. Noi facciamo finta di assecondarli, ma in realtà ci guardiamo continuamente intorno per capire come e da dove scappare, perché non abbiamo rinunciato al nostro desiderio di libertà. Però qui ci dividono: Matteo viene forzatamente condotto in un altro vano, non per ucciderlo, non ancora; ma semplicemente per farlo sedere in un’altra parte, lontano.

Così lo perdo di vista, però non ho intenzione di mollarlo al suo destino e riprometto a me stesso di tornare a prenderlo. Con lo sguardo continuo a cercare una via d’uscita non sorvegliata e aspetto il momento giusto per correre via. Che finalmente arriva: all’improvviso scoppia un trambusto dall’altra parte del capannone, colgo l’occasione e mi lancio verso una porta libera. La apro e scorgo un cortile con un muretto. Non ci penso due volte: prendo la rincorsa, metto il piede destro su un banco da lavoro e lo salto di slancio.

Dall’altra parte trovo un’altra recinzione. Capisco che questa struttura deve essere fatta con mura perimetrali concentriche, quindi ci sarà da faticare ancora un po’. Ma l’obiettivo finale nella mia folle follia è ben chiaro: voglio arrivare fuori, rubare uno degli aerei da caccia dei ribelli e tornare a cercare Matteo, anche a costo di bombardare il carcere. Il punto è questo: se non lo libero io, lo uccideranno comunque. Tanto vale tentare il tutto per tutto, anche a costo di rischiare di ucciderlo io stesso, non c’è nulla da perdere.

Avverto che dietro qualcuno mi sta inseguendo, sento delle voci; probabilmente mi hanno visto fuggire. Allora ricomincio a correre senza voltarmi mai indietro (ché tanto non serve a nulla, anzi fa solo perdere tempo) e salto il secondo muretto. Ma non so come e perché, mi ritrovo nel cortile di partenza, quello appena fuori il capannone con gli ostaggi. “Cazzo – penso – devo aver sbagliato strada in qualche modo. E ora?”. E ora sento i guerriglieri vicinissimi a me.

Non ho tempo per pensare e preso dalla fretta mi nascondo malamente dietro un pilone anche se è difficile celarsi del tutto. Sulle spalle infatti ho il mio vecchio zaino Invicta verde che produce troppo volume. Infatti mi scoprono. “Guarda chi abbiamo qui”, ghignano i maledetti. Sono in tre, non hanno armi da fuoco in mano, ma solo coltelli. Penso rapidamente al da farsi e decido di giocarmela: in fondo anche io non ho nulla da perdere.

Mi metto in posizione di guardia e li sfido, anche se sono di più. Quello che sembra il capo, un tipo tarchiato dalla carnagione scura, ridacchia beffardo. Io mi lancio all’attacco e lo colpisco con un diretto in pieno viso, ma nonostante il colpo vada perfettamente a segno lui non fa una piega. Capisco che sono fottuto e allora tento di nuovo la carta della disperazione. Approfittando di un attimo di incertezza dei tre, mi lancio ancora verso il muro di cinta e lo salto.

Cosa ci sarà questa volta ad aspettarmi dall’altra parte?

(irregolare.wordpress.com)


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