Su Libero è stato pubblicato oggi un interessante articolo sul Festival di Venezia e sulle ciofeche in celluloide girate in Italia e che non hanno alcun merito né di botteghino né di cultura, e che ciononostante hanno goduto e continuano a godere di ingenti investimenti pubblici, con il paradosso – tutto italiano – che i costi affrontati per girare questi «film» spesso sono superiori al 1000% rispetto agli incassi. (Mi chiedo: ma chi se li fila certi film?).
Dicevo: un’assurdità tutta made in Italy. Perché solo da noi, il cinema non è un’industria, ma è un parassita statale. Solo da noi, fare cinema significa chiedere il contributo statale, girare film lagnosi, noiosi, e persino ridicoli nel loro intento «drammatico», ideologico e nell’ostinazione del cercare la profondità anche là dove non c’è. Peraltro, cosa non da poco, pare che nel Belpaese il genere sia sempre quello: storiella strappalacrime, criminalità organizzata o se proprio vogliamo seguire l’ultima tendenza, storiella antiberlusconiana. Se poi, si può mischiare il tutto in un unico minestrone, beh, allora tanto meglio. Del resto, l’informazione sinistra, i bollettini giudiziari e il folklore offrono tanto di quel materiale…
Chiaramente, chi poi paga per queste ciofeche che passano come l’acqua su una superficie impermeabile, è sempre il cittadino. Anche in tempo di crisi, i soldini per il cinema bigotto, radical chic, politicamente corretto a oltranza, ideologicamente orientato, noioso come la replica di un vecchio telefilm consumato e inconsistente come la spuma da barba, ci sono sempre. Pantaleo (noi) sborsa malloppi sostanziosi a ogni piè «artistico» sospinto di registi e attori semi sconosciuti con la vocazione del film d’antan in stile De Sica (Vittorio) e Visconti, senza però raggiungerne i livelli artistici, e senza che vi sia, per vero, il retroterra culturale e lo spessore artistico del settore.
Però i soldi fanno dannatamente comodo, e se li si può avere senza grande impegno, allora chi se ne frega? Facciamo un film barboso, palloso, noioso. Sbizzarriamoci a parlar male del Presidente del Consiglio, e facciamo un enorme spot elettorale a questo o quel partito, che tanto lo Stato non si lamenta e paga. Che poi lo spettatore vada o non vada a vederlo, è un problema dello spettatore non certo del regista, dell’autore o dell’attore, o della casa di produzione che incassa il dinero.
Certamente un altro mondo e un’altra filosofia rispetto al cinema americano e in generale al cinema internazionale. Non che non ci siano ciofeche anche negli States o in Francia, o persino in India, ma a ben vedere, difficilmente sono ciofeche finanziate con i soldi dei contribuenti. Perché il cinema è pur sempre un business, e per essere fatto bene e attirare pubblico, richiede ingenti investimenti. E gli investitori, quando mettono il loro denaro, vogliono essere certi che ci sia il risultato positivo, anche se il tema è difficile ed è politicamente sensibile.
Ecco dove la sta la differenza. Il divario economico tra il cinema italiano e il cinema internazionale (e americano), è una diretta proiezione del divario di professionalità, mentalità e obiettivi tra i due mondi. Il cinema italiano non ha a cuore lo spettatore, cioè il fruitore finale del prodotto, perché i soldi per fare certi «film» arrivano prima (e a prescindere) dal risultato del botteghino e dalla validità del progetto. In altre parole, come in ogni altro ambito della vita sociale italiana, compresa l’istruzione e il lavoro, il parametro non è il merito, bensì il diritto che prescinde dal merito. Io sono un regista, questo è il mio lavoro e dunque devo aver diritto di fare un film. Che poi, come regista, giri «cagate» o «capolavori», è un affare mio, e di nessun altro: né del finanziatore, né dello spettatore. Però, siccome il mio è un diritto che discende dalla Costituzione, pretendo che i soldi per girare i miei lavori li paghi il contribuente. Anche perché – diciamocela tutta – quale investitore privato sarebbe così matto da investire qualche milione di euro per pellicole che non si fila nessuno e non hanno uno straccio di mercato?
E poi abbiamo il folklore delle kermesse cinematografiche, sempre finanziate con i soldi pubblici: da Venezia a Roma. Autentico folklore, perché alla fine quello che conta non è tanto il film in gara, quanto il red carpet, la passerella degli attori, dei registi, e ora pure dei cantanti. Il film è un dettaglio secondario, anche perché chi decide il successo di una pellicola non è una giuria di personaggi spesso poco conosciuti, ma è il pubblico, è il botteghino, sono le recensioni che si trovano nelle riviste specializzate, nei blog e nei siti che si occupano di cinema, e oggi lo sono persino i click ai link di streaming di quel determinato titolo, le vendite e i noleggi di dvd. Insomma, è un po’ come con il Festival di Sanremo che sta alla musica come il comunismo alla democrazia.
Eppure Pantaleo Italia paga per celebrare film e festival cinematografici che non dicono nulla, che non rappresentano nulla e che sottraggono risorse, spesso ingenti, ad altri settori vitali del vivere sociale, come giustamente diceva Ernesto Rossi sul Mondo cinquant’anni fa. E in tempo di crisi, quando si pensa di tagliare le pensioni, forse la politica dovrebbe valutare se non sia arrivata l’ora di restituire il cinema italiano ai suoi giudici naturali: gli spettatori, che giudicano con il miglior voto possibile: l’implacabile biglietto di ingresso alle sale. Il resto è autocelebrazione… fuffa… parassitismo.
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Soldi pubblici sprecati: festival del cinema autocelebrativi e pellicole italiane, vere e proprie «ciofeche» in celluloide
Creato il 31 agosto 2011 da IljesterPotrebbero interessarti anche :
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