10 novembre 2013 • Recensioni Film, Vetrina Cinema •
Il giudizio di Elisabetta BartuccaSummary:
Sette miliardi di bocche da sfamare, che nel 2040 diventeranno 9, multinazionali pronte a tutto pur di soddisfare un fabbisogno in continua crescita, anche a costo di mettere in pericolo la sicurezza alimentare di mezzo pianeta. Tonnellate di cibo infetto ogni anno viaggiano su container, attraversano oceani, aggirano controlli e arrivano dritti sulle nostre tavole: in poche parole contraffazione alimentare. A parlarne è Luca Barbareschi che con poco più di 5 milioni di euro, sei settimane di riprese tra le strade di Hong Kong e un’idea corteggiata per anni – il libro di Francesco Abate e Massimo Carlotto, ‘Mi fido di te’ –, realizza un’apprezzabile pellicola di genere, “Something Good”, nella sale dal 7 novembre per 01 Distribution.
Centocinquanta copie per una storia che l’attore, qui perfettamente a suo agio con la macchina da presa, ha deciso di produrre, scrivere, dirigere e anche interpretare “visto che gli attori italiani a cui avevo pensato non volevano farsi dirigere da me, e le star americane erano fuori dalla portata del nostro budget”.
Un’immagine di Something Good
E per sé Barbareschi ha ritagliato il ruolo del protagonista Matteo, un solitario faccendiere in fuga dall’Italia, nominato responsabile del traffico internazionale di alimenti per conto del gruppo Feng a Hong Kong. Qui inizia una scalata al successo senza scrupoli, destinata a fermarsi solo quando il cammino di Matteo incrocerà quello della giovane Xiwen, una donna che molti anni prima ha perso il suo unico figlio, Shitou, per un’intossicazione da alimento adulterato. I due si conoscono per caso nel ristorante che lei ha aperto in memoria del bambino, per compiere una personale battaglia per l’autenticità degli alimenti. E con l’amore Matteo scoprirà la redenzione…
Un film con un cast all star (Zhang Jingchu, Kenneth Tsang, Gary Lewis, Michael Wong, Branko Djuric), recitato in inglese e cinese, girato interamente in Cina tra i rocamboleschi tentativi di aggirare la censura e le difficoltà logistiche da affrontare giorno per giorno in un paese immenso, gigantesco, lontano: il risultato è un’opera onesta, sincera, capace di assumersi le responsabilità di ciò che dice.
Nel mirino ci finiscono multinazionali e banche, le stesse che hanno preferito rimanere fuori dai giochi: “Non sono volute entrare in questo film per delle ragioni specifiche, perché partecipate da gruppi come Nestlé e Philip Morris”, sottolinea il regista, che punta il dito contro una rete ben consolidata di interessi, facendo nomi e senza paura di affrontare il polverone che “Something Good” è destinato a sollevare. La scelta di una tematica spinosa e quasi inedita per il cinema italiano, culmina in un film di genere, un mix equilibrato tra il thriller (a tinte noir rubate qua e là alla new wave hongkonghese) e la redemption story di un uomo che per la prima volta si concede di ‘fidarsi’; le regole della narrazione di genere scardinano così Something good” dall’essere un’opera di denuncia. Perché Barbareschi non è Michael Moore e non era nelle intenzioni di questo film esserlo.
di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net
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