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Questo giusto per ricordare quanto su tale argomento si sia visto praticamente qualsiasi tipo di sfumatura e sguardo.
Eppure László Nemes viene a dirci che, in realtà, proprio così non è, che un conto è raccontare l'olocausto al cinema e un conto è entrarci dentro. Entrarci dentro significa seguire come un ombra chi di quella realtà ha fatto parte, chi ha partecipato davvero alle sottomissioni e alle minacce di morte e chi, soprattutto, era obbligato ad eseguire ordini disumani come quelli di pulire sangue da docce colme di cadaveri, o trascinare via quei cadaveri fin dentro le fornaci.
Segue il suo protagonista in terza persona "Son Of Saul" con un fuoco cortissimo della camera a mano, appena necessario a distinguere la sua casacca, il suo volto e i suoi tratti. Si tratta di un membro del Sonderkommando, un gruppo di ebrei selezionato dai tedeschi per svolgere lavori faticosissimi e portare con sé alcuni piccoli segreti, mansione che tuttavia non gli impedisce di sfuggire alle classiche esecuzioni, che per loro somigliano un po' a un passaggio di consegna programmato. Un giorno, come tanti, però a cambiare la solita routine il corpo di un bambino sopravvissuto alle docce, un bambino che prima di essere ucciso con la forza dai tedeschi, Saul identifica come suo figlio.
Rigorosamente in formato 4:3, probabilmente scelto per aumentare la claustrofobia e la gigantesca pressione della missione posta al suo centro, la pellicola di Nemes assume così le sembianze di una lotta contro il tempo, di una missione impossibile: riuscire a dare a un bambino innocente degna sepoltura e breve messa celebrata da un rabbino. Un bisogno che Saul sente necessario e da realizzare a tutti i costi, al punto da metterlo più in alto della sua vita e di quella di coloro che ruotano attorno a lui. Ogni altra cosa perde quindi il suo costante valore: gerarchie, sotterfugi e persino la consegna di un pacchetto importantissimo per un disperato piano di fuga. Tutto per un briciolo di umanità, forse l'unica, da dedicare a una vita ormai spenta, forse simbolo di una speranza da seminare per il futuro.
Non è un film facile "Son Of Saul", non lo è né per la tematica al suo centro e né per lo stile con cui è stato progettato. Possiede una trama a cui si fa sempre fatica a star dietro, a capire, e dove le immagini, specialmente quelle sfocate, rubano la scena impressionando spesso per realismo e crudeltà. Una crudeltà su cui fortunatamente non c'è la minima voglia di forzare la mano, in cui il dolore che si respira è sofferto, assurdo, ma rigorosamente rispettato da chi lo racconta e ricostruito secondo ciò che la Storia ha riportato e descritto.
Per questo, a prescindere dai discorsi preliminari, l'opera di Nemes alla fine riesce a scalfire e ad imporsi. Al di là di una visione faticosa, le immagini di Saul e della sua corsa, quelle dei suoi occhi attorno a un mondo diverso dal quello che siamo abituati a vedere e la sua ostinazione disperata, sono pezzi impossibili da dimenticare e da rimuovere, pezzi destinati a restare a lungo nella memoria.
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