Anna Lombroso per il Simplicissimus
C’è un grande negozio a Roma che pare una grotta di alì babà, o le navi che portavano le merci dall’Oriente: scaffali di spezie, aromi, cibi misteriosi, con etichette enigmatiche e istruzioni indecifrabili e odori sconosciuti. E la clientela, che sembra un bellissimo e pacifico spot di una mansueta e comprensiva società multietnica, si aggira parlando lingue arcane. E gli indigeni li interrogano per avere spiegazioni su pacchetti ignoti, nomi impronunciabili e si rincorrono ricette e si accavallano consigli e risate, quelle a gola spigate degli africani e quelle a cascatella pudica degli orientali.
Ma i pregiudizi attecchiscono anche sulle tavole più colorate. Ieri una giovane cliente, con il piglio di un’attenta consumatrice secondo i comandamenti di “Donna moderna” interpellava la cassiera brandendo un pacchetto di fagioli borlotti: lei, diceva, deve rassicurarmi sull’origine di questi fagioli. Con tutto quello che si legge, non vorrei fossero cinesi.. voglio sapere quello che mangio e magari sono come i giocattoli: velenosi”.
Encomiabile dunque il fiero cipiglio autarchico della giovane donna, occhiuta, prudente e accorta, che in mancanza di prodotti a km zero, esige comunque prodotti nostrani, espressione di quel made in Italy garanzia di tutela della salute tramite dieta mediterranea, con tutto il contorno retorico alimentato da comparsate eccellenti e sponsorizzazioni opache di chef blasonati e nutrizionisti togati: olio Evo toscano, pomodori di Pachino, lardo di Colonnata, fagioli di Lamon, capperi di Salina, olive taggiasche, pistacchi di Bronte, come se si trattasse di frutti coltivati in doviziose geografie e infiniti e sterminati territori protetti, controllati abilitati a produrre illimitati e pingui volumi di merci naturali, inviolate dalla chimica, perfette, tonde e sode da caricare su container e treni superveloci e sterili per rovesciarle sulla mensa incontentabile dell’avveduta cliente di Castroni a via Cola di Rienzo.
Per via di strane forme enogastronomiche di relativismo culturale, i veleni forestieri, quelli made in China poi, sarebbero dunque più tossici, rischiosi, gravidi di conseguenze a breve e lungo termine per palti i organismi di olive bricate all’ombra dell’Ilva, di pummarola nutrita dai liquami delle discariche di Terzigno, di lampascioni venuti su di fianco ai pozzi della Val d’Agri, delle cui perigliose condizioni ambientali oggi si conosce qualche inquietante risvolto, di tonnetti pescati al largo di Scarlino, di pomodorini ciliegina, perina, Pachino, frutto della più collaudato esperimento Ogm riscattato dalla casualità della lotteria naturale, sperimentato in laboratori israeliani impegnati nella ricerca di qualcosa di adatto a crescere in terreni sabbiosi, che a Pachino appunto ha trovato la sua fortunata applicazione.
È sconcertante che una nazione giovane, che tra pulsioni campaniliste e crescita disuguale trova una sua unità solo nella livella della povertà, soffra di rigurgiti sciovinisti a tavola, come una cattiva digestione della retorica sul Bel Paese, rimasto immutato solo nello slogan della Galbani di Melzo, sulla qualità del cui latte d’origine è peraltro difficile giurare, sul suo paesaggio, sull’Italia felix fertile e opima, sulle sue terre rigogliose, le sue giovenche al lavoro per darci mozzarelle dop, parmigiano ineguagliato dal parmesan, le sue bufale , evocazione felice di una propaganda più tarocca dei falsi contraffatti in Cina.
Incuranti del nostro Terzo Mondo interno, presi a ceffoni nelle sicurezze e nelle garanzie, espropriati di diritti e democrazia, considerati inferiori dall’Europa che guarda a noi pigs come a una inetta e scomoda propaggine dell’Africa, ci resta una incrollabile fiducia nella superiorità che ci deriva dall’appartenenza casuale e molto contestata all’Occidente, comprese la generalizzata iniquità, l’esportazione di guerre e corruzione, diffusione di venefici contagi morali e chimici, l’imposizione di un modello di sviluppo regressivo e offensivo per l’ambiente, l’ostentazione dissennata dell’abuso delle risorse e dei beni comuni, il cui accesso è sempre più ridotto per i molti ad appannaggio dei soliti pochi.
Lo sanno i disperati che approdano perigliosamente sulle coste vicine a Pachino, che considerano l’Italia un passaggio verso tavole meglio imbandite e più accoglienti, lo sa l’esigente clientela colorata dela grande emporio di Roma che compra con sacrificio i suoi falafel, la sua salsa chili, il pastrami, gli ingredienti di quel curry piccante, che brucia, fa lacrimare sorridendo e piace perché è vario come il mondo.