Pubblicato il 22 settembre 2012 con Nessun Commento
Impresa non facile zippare in 113 minuti l’universo intimo e geniale di Woody Allen. Sebbene il manifesto di Woody, così si chiama il documentario dedicatogli dal regista Robert B. Weide, citi a grandi caratteri: “Tutto quello che avreste voluto sapere su Woody Allen ma non avete mai osato chiedere”, il dubbio che ci sia molto altro ancora da conoscere della vita di questa leggenda del cinema, resta. Inconfutabile però che Woody, se per alcuni aspetti rappresenta un omaggio ambizioso all’icona della macchina da presa mondiale per altri certamente è un passepartout autentico che consente un accesso senza precedenti alla vita e al processo creativo di Allen; dall’infanzia ai suoi primi ingaggi professionali da adolescente – quando scriveva barzellette per comici e quotidiani – fino al percorso della strepitosa carriera: dal suo lavoro negli anni 50’- 60’ come autore televisivo, cabarettista, comico e ospite di talk show televisivi, fino a quello di acclamato sceneggiatore/regista con una media di un film all’anno per più di 40 anni.
La frase chiave: “Qual è stata la cosa peggiore della sua infanzia? forse il fatto che ero giovane”
La recensione
Recensire un documentario è sempre un impresa difficile, anche perché è troppo labile il confine tra la natura espressamente storica del documento e il guizzo autoriale del regista che si cela dietro. La difficoltà, però, diventa francamente mastodontica se l’oggetto di studio è una delle personalità cinematografiche più influenti della storia della settima arte, dal momento che non si può non considerare la qualità prettamente artistica delle opere realizzate, siano esse belle o brutte. Inoltre, ulteriormente spinosa rimane poi la questione sull’esprimere un giudizio relativo alla persona e non al lavoro da essa svolto.
Probabilmente il regista Robert B. Weide è consapevole del rischio che corre nel documentare la vita di Woody Allen, ma affronta con coraggio e molta (forse anche troppa) ammirazione lo “studio” su una persona indubbiamente fondamentale.
Che piaccia o no, che lo si adori o lo si detesti, Allen è la storia del cinema ed è proprio da questo punto che bisogna considerare l’operazione Woody, un documentario nato per la televisione ma poi ridotto per una fruizione sul grande schermo. Ed è giustamente la sala cinematografica il posto più adatto dove collocare un regista come Allen, forse uno dei più metacinematografici mai esistiti.
Weide, in una lunga intervista ben strutturata con i contributi di alcuni dei suoi attori feticcio, mostra un lato che potrebbe apparire inedito del regista newyorkese, ma che in realtà è solo una conferma di quello che giustamente prevale dalle sue pellicole. Ai neofiti viene sicuramente voglia di vedere tutte le sue opere, mentre per chi lo apprezza da tempo non rimane che godere ancora una volta di quelle perle di comicita, prettamente jewish che ne hanno fatto la fortuna e sono un piccolo marchio di fabbrica.
Con grande divertimento si assiste alla meticolosa elaborazione del copione, rigorosamente scritto su una vecchia macchina da scrivere tedesca e la paradossale forma di copia ed incolla delle scene da inserire nello script, ai ricordi degli esordi prettamente comici, alle partecipazioni televisive, alle interviste e poi agli attori che Allen ha diretto con grazia inusuale.
Ed è qui il punto di maggiore interesse dell’operazione proposto da Wide: sezionare la filmografia di Woody Allen in base alle grandi figure femminili che hanno impreziosito sia il suo lato artistico che quello privato.
La prima musa è stata Diane Keaton a cui Allen ha letteralmente cucito addosso uno dei suoi capolavori, Io e Annie, forse l’unica in grado di contenere ed inglobare tutte le nevrosi intellettualistiche del regista, e che poi è stata in grado di raccogliere l’ingombrante eredità lasciatagli e proseguire un percorso artistico di notevole pregio. I capelli rossi, il fare androgino e quella perfetta “non bellezza” hanno poi fatto driblare Allen verso la più spigolosa e difficile Mia Farrow, attrice con la quale il rapporto è divenuto uno dei più intensi e chiacchierati della storia del cinema e che Robert B. Wide si vede bene dall’analizzare in maniera approfondita.
Al di là della loro brusca separazione e dello scandaloso nuovo rapporto del regista con la loro figlia adottiva, senza dubbio è a questa donna che vanno collocate le opere migliori come Hanna e le sue sorelle e Mariti e Mogli. Ultime, ma non per questo meno importanti sono poi Scarlet Johanson e Penelope Cruz, donne legate ai più recenti film del maestro, di discontinua qualità ma pur sempre degli eventi alla loro uscita.
Tirare le somme sull’artisticità di Allen non interessa a Wide, e forse nemmeno al pubblico, ma invece il documentarista vorrebbe tentare di estrapolare un ritratto intimo dell’uomo dietro il genio creativo, riuscendoci solo in parte. Tutta l’operazione, compresi madornali mancanze di citazione, pur interessando risulta poco sincera e molto di parte, creando più un alone di santità e di intoccabilità attorno a Woody Allen che non un genuino spirito critico.
A cura di Katya Marletta e Gabriele Marcello