Magazine Media e Comunicazione
Speciale comunicazione e società: come cambia la democrazia nell'era del digitale
Creato il 14 maggio 2011 da David Incamicia @FuoriOndaBlogdi David Incamicia |
Nella vita tutto è comunicazione. Parole ed espressioni tanto importanti come qualità e realizzazione personale, non solo nell’ambito lavorativo ma anche nel privato, dipendono dalla capacità di comunicare con chiarezza chi siamo, che cosa desideriamo, in che cosa crediamo. Comunicare è un’attitudine naturale, una necessità propria dell’uomo, fin dai tempi in cui non si esprimeva a parole ma attraverso gesti e suoni gutturali. Comunicare era un primario bisogno del gruppo, delle tribù, delle comunità e, oggi più che mai, lo è anche di stati, partiti, aziende. Ma sotto questa apparente semplicità - che nasce dalla nostra abitudine a comunicare con gli altri - si nascondono dinamiche precise, regole, meccanismi e tecniche che meritano attenzione e approfondimento.
Comprendere e farsi comprendere è nell'era contemporanea una delle maggiori esigenze. Sono infatti molti a pensare che negli anni 2000 la comunicazione sia divenuta un fenomeno sconvolgente, come fino alla prima metà del secolo scorso lo è stata l’industria: dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione della comunicazione! Ma fare comunicazione, nel terzo millennio, è profondamente differente. Infatti, se comunicare è la cosa più facile del mondo, poiché tutti lo facciamo, diventare esperti di comunicazione significa saper gestire strategie complesse fatte di parole, suoni, immagini e di innumerevoli strumenti "rivoluzionari" che ancora molti - forse troppi - non riescono a comprendere. Pertanto, cos’è la comunicazione oggi? Cosa sono i media? In quale contesto culturale si sviluppano? In definitiva, perché è importante comunicare?
Molti esperti del settore, come ad esempio la prof.ssa Chiara Giaccardi dell'università Cattolica di Milano, ritengono che per provare a rispondere a tali decisivi quesiti occorra in primo luogo elaborare una definizione del concetto di comunicazione dal punto di vista dell'analisi antropologica. Di conseguenza, la comunicazione non sarebbe semplicemente uno strumento di trasmissione né di informazione, ma piuttosto una "opportunità" di confronto, di accoglienza dell’alterità, uno sforzo di ricerca del senso di sé e della vita in costante divenire.
Sul piano etimologico, difatti, nel termine comunicazione possiamo distinguere tre radici: communis (collettività), cum-munus (dono, apertura all’alterità), cum-moenia (comunità). Tutte accezioni che riflettono, ad un tempo, la necessarietà e l'inevitabilità della comunicazione stessa per l'essere umano, oltre che la sua oggettiva difficoltà. Se si vuole poi definire il termine media, quelle stesse radici costituiscono un ambiente e non sono degli strumenti. Vanno a formare, in sostanza, quello che Benedetto XVI ha di recente definito continente digitale, all’interno del quale vige l’imperativo della comunicazione a tutti i costi.
I media altro non sarebbero, dunque, per dirla con le parole di Marshall McLuhan, uno fra i massimi massmediologi mondiali scomparso nel 1980, che delle metafore attive, veri e propri veicoli in grado di mescolare costantemente realtà e percezione di essa, finendo spesso per determinare, a livello di ricettività sensoriale delle masse, l'affermazione della seconda sulla prima. La Rete, in particolare, è il veicolo che più di altri rende concreta questa fattispecie socio/antropologica, una materia liquida che circola come sangue nel corpo sempre più esigente - ed esposto - del moderno villaggio globale.
Nell'arco della storia, i progressi riguardanti le tecnologie non soltanto hanno rappresentato un fattore di mutamento sociale per il pubblico di massa ma hanno pure sospinto l'economia mondiale e favorito la nascita di numerose aziende specializzate. Anche se le attuali condizioni congiunturali continuano a costituire un'incognita sulle sfide sociali e finanziarie che attendono il pianeta, l'innovazione tecnologica e l'accelerazione dei suoi processi sono fonte di speranza per l'avvenire. L'ecosistema umano si sta in effetti modificando con l'arrivo di nuovi prodotti e servizi interattivi e con la realizzazione di un mondo digitale a livello globale, interconnesso e interoperabile. I videoregistratori, i walkman, i dischi, gli album fotografici cartacei e altri mezzi di comunicazione e di intrattenimento tradizionali sono andati via via scomparendo per lasciare spazio a iPad, tablet, smarthphone e, soprattutto, ai programmi di social networking.
Il tasso di crescita del numero degli utilizzatori di Internet in tutto il mondo, del resto, non risente delle oscillazioni dell'economia mondiale, situandosi in modo abbastanza stabile a oltre il 40% su base annua ormai dal 1995 (Fonte: Pictet Asset Management di Ginevra, "La comunicazione digitale come tema vincente nel 2011"). La possibilità di accedere a Internet ovunque, in qualsiasi momento, abbinata all'aumento del numero degli utilizzatori e ai metodi sofisticati di analisi del loro comportamento, provoca altri fenomeni strutturali di particolare interesse. Quello di cui più si discute negli ultimi anni è la globalizzazione, vale a dire l'abbattimento virtuale di ogni frontiera e distanza fra i popoli della Terra. La tecnologia al servizio di questa eccezionale conquista umana, ancora in uno stato "embrionale",èper l'appunto il digitale applicato ai sistemi di trasmissione di dati e informazioni. Le enormi potenzialità dei moderni mezzi di comunicazione hanno allargato gli orizzonti cognitivi e culturali del loro amplissimo bacino di utenza, innescando quel virtuoso meccanismo integrato che si fonda sull'interconnessione e sull'interattività.
Solo fino a qualche decennio fa il massimo dell'interattività era offerto dal collegamento telefonico, limitato alla trasmissione di suoni e quindi alla sola forma di comunicazione verbale tra due soggetti. Con l'avvento del sistema digitale sono invece aumentate la quantità e la velocità di trasmissione dei dati. Con il computer, così come con il telefonino, si può essere costantemente collegati alla rete Internet e ricevere e trasmettere E-mail o attingere notizie da fonti d'informazione sempre più presenti nel Web (ormai ogni testata giornalistica, anche televisiva, ha un proprio sito). La televisione stessa, col digitale, sta mutando la sua funzione. "Le molteplici opzioni offerte sono destinate a cambiare radicalmente il sistema società cosi come lo conosciamo oggi. Gli attuali sistemi di collegamento tra due o più interlocutori possono fornire l'input necessario per una più moderna organizzazione del mondo scolastico e, sopratutto, per una più omogenea e razionale diffusione dell'istruzione che annulli qualsiasi discriminazione sociale ed offra a tutti pari opportunità", così scriveva negli anni '90 il prof. Tommaso Tozzi in "La comunicazione, dalle origini verso il terzo millennio" (Teoria e Metodo dei Mass Media).
Con la crescita notevole del bacino d'utenza dei mezzi di comunicazione è aumentata in modo direttamente proporzionale la potenzialità di audience dei messaggi veicolati, tanto in ambito pubblicitario/commerciale quanto ai fini della propaganda politica e istituzionale. Gli operatori di entrambi i campi, prendendo spunto dal consolidato sodalizio simbiotico fra Tv (specialmente quella privata) e pubblicità, hanno saputo sfruttare con indubbio profitto le possibilità offerte dal settore telefonico e dal Web, non di rado a discapito del cittadino utente e/o consumatore. Da tale prospettiva, la vera straordinaria innovazione "utilitaristica" è che sulla forza della parola (telefono, radio) si è impiantata la potenza dell'immagine (televisione, Internet), e la combinazione dei due elementi delinea altrettanti possibili effetti, negativi o positivi, sul destinatario finale del messaggio trasferito.
Fra gli effetti positivi, oltre alle maggiori possibilità di conoscenza e di informazione, possiamo annoverare l'affermazione della personal democracy o e-democracy, consistente nella facoltà di svolgere attività politica e sociale utilizzando gli strumenti della Rete. A questo fenomeno è collegato il dialogo diretto che si può instaurare fra governato e governante, fra elettore ed eletto, con la conseguente condivisione di responsabilità. I cittadini, inoltre, con sempre maggiore frequenza ricorrono ad Internet anche per risolvere problemi di natura personale o familiare, per questioni di studio o di salute e per cercare lavoro, e questo è un ulteriore elemento certamente positivo di emancipazione sociale. Tuttavia, la novità di fatto dirompente ed epocale introdotta dall'avvento dell'era digitale è forse il fenomeno in costante crescita del Citizen Journalism, detto anche giornalismo partecipativo, un linguaggio all'avanguardia utile a raccontare il presente in modo alternativo. Sono gli stessi utenti della Rete a diffondere notizie e a documentare quanto accade intorno a loro, attraverso l’uso di piattaforme come You Tube e di strumenti come Twitter, Facebook e i blog.
La recente indagine "La comunicazione nella Me-society: traiettorie di accesso al palinsesto personale" - realizzata per i Quaderni del blog Anteprima tomorrow, today - evidenzia e conferma come in tutto il mondo la quasi totalità della popolazione presente su Internet utilizzi stabilmente i social media. Anche il nostro Paese rientra a pieno titolo in tale statistica, con oltre 25 milioni di persone con profili attivi sui network sociali. Riassumendo, dunque, le nuove opportunità messe a disposizione dal Web ai cittadini, si possono elencare:
ü maggiori flussi informativi su ciò che accade nel mondo;ü maggiori strumenti di apprendimento e approfondimento;ü nuovi canali di discussione e confronto;ü nuove possibilità di pubblicazione e condivisione;ü nuove forme di impegno e di protesta sociale;ü maggiori capacità di formare la propria coscienza politica o di influenzare le scelte politiche altrui.
Ed è a questo punto che intervengono gli aspetti ambigui delle nuove tecnologie digitali. Proprio l'informazione politica, ad esempio, è andata nel tempo trasformandosi in infotainment (gossip incluso), con eccessivi picchi di spettacolarizzazione. Il fatto che molti politici e governi usino direttamente i social network e Internet, accresce i rischi di degenerazione in senso scandalistico ed amplia i tentativi di piegare il diritto dei cittadini di conoscere i fatti all'esigenza della menzogna e della propaganda per bassi interessi di potere. E' la perversione delle regole pubblicitarie che ritornano, riducendo il messaggio o l'informazione a spot e mercificando il rapporto con il cittadino o l'elettore.
In un articolo pubblicato in Italia dal magazine Reset, il prof. Manuel Castells indaga a fondo sulle caratteristiche deleterie che minano l’interazione tra comunicazione e rapporti di potere nel contesto tecnologico che caratterizza la cosiddetta network society, o "società in rete". I media non solo sono divenuti lo spazio sociale dove il potere viene deliberato, ma mostrano da vicino il legame diretto tra politica, interessi dei media stessi, opzione scandalistica e crisi della legittimità del potere in una prospettiva globale. In un tale contesto, politiche insurrezionali e movimenti sociali sono in grado di intervenire con maggiore efficacia nel nuovo spazio di comunicazione.
Comunicazione e informazione sono da sempre fondamentali fonti di potere e contropotere, di dominio e cambiamento sociale. Ciò in ragione del fatto che la principale battaglia che si gioca nella società è quella per le menti degli individui. Il modo di pensare di questi ultimi determina la sorte di leggi e valori su cui le società si fondano. E sebbene paura e coercizione siano risorse cruciali nell’imposizione della volontà del dominatore sui dominati, pochi sistemi istituzionali possono durare a lungo se basati quasi esclusivamente sulla semplice repressione: le torture inflitte ai corpi rappresentano una pratica meno efficace dell’influsso esercitato sulle menti. La continua trasformazione degli strumenti tecnologici indotta dall’era digitale, rileva Castells, estende l’influenza dei mezzi di comunicazione a tutti gli ambiti della vita sociale, in un network che è al contempo global e local, generico e personalizzato, secondo un modello in continua evoluzione. Di conseguenza, i rapporti di potere - ossia le relazioni che servono da fondamento a tutte le società - e i processi che sfidano i rapporti di potere istituzionalizzati sono sempre più plasmati e determinati dalla sfera della comunicazione.
Per "potere" si intende qui la capacità strutturale, da parte di un attore sociale, di imporre la propria volontà su di un altro attore sociale. Tutti i sistemi istituzionali riflettono rapporti di potere, ma anche i loro limiti, negoziati attraverso un processo storico di domino e contro-dominio o "contropotere", che qui si intende come la capacità, da parte di un attore sociale, di resistere e sfidare i rapporti di potere istituzionalizzati. Sia le autorità, sia i soggetti dei piani di contropotere operano, oggi, in una nuova cornice tecnologica e ciò ha ripercussioni su modalità, significati e obiettivi della loro pratica conflittuale. E' in virtù di tale conflitto che si afferma un nuovo modello di comunicazione legato a cultura e tecnologia della network society e basato su reti di comunicazione orizzontale: la mass self-communication (imperniata prevalentemente sui blog personali).
Ricapitolando: i media non sono i depositari del potere ma rappresentano, in termini generali, l’ambito dove quest’ultimo viene deliberato; nelle nostre società, la politica è legata alla politica dei media il cui linguaggio ha leggi proprie; si fonda, difatti, soprattutto sulle immagini, non necessariamente visive; il messaggio più potente in assoluto corrisponde a un messaggio semplice abbinato a un’immagine; e il messaggio più semplice, in politica, è il volto di una persona. La politica dei media porta quindi alla personificazione della politica attorno a leader che possono essere opportunamente venduti nel mercato elettorale. Se credibilità, fiducia e carattere diventano fattori critici nel determinare un esito politico, la demolizione della prima e l’annientamento dell’ultimo divengono le armi politiche in assoluto più potenti. Ciò si traduce nella proliferazione di intermediari alla continua ricerca di informazioni pregiudizievoli per l’avversario e dediti alla manipolazione di informazioni, o direttamente alla loro contraffazione all’uopo. In una espressione, efficacemente coniata dal noto scrittore anticamorra Roberto Saviano, si mette in moto la "macchina del fango".
Così la politica dei media diviene funzionale alla politica della personalità, cedendo il passo alla politica dello scandalo. Quest'ultima può avere molteplici effetti sul sistema politico: può infatti pregiudicare il processo elettorale e decisionale minando la credibilità di quanti si ritrovano al centro dello scandalo; talvolta, invece, la "politica sporca" raggiunge un livello tale di saturazione nell'opinione pubblica da innescare perfino totale indifferenza e inducendola a scegliere cinicamente, fra tutti gli immorali, quello che trovano più affine o vicino ai propri interessi; ancora, in alcuni casi i cittadini considerano lo smascheramento di un comportamento disdicevole un fatto divertente, senza tuttavia trarne alcuna lezione politica; infine, la politica dello scandalo può avere conseguenze durature sulla prassi democratica poiché i cittadini, dando per scontato che tutti i politici, in un modo o nell’altro, sbagliano e la diffamazione è ormai generalizzata, finiscono col perdere ogni fiducia nei vari partiti e leader mettendoli sullo stesso piano.
Gli scandali, seppure non costituiscano l'unica causa di idiosincrasia nel rapporto fra cittadini e "Palazzo", sono quantomeno un fattore precipitante in grado anche di innescare cambiamenti profondi nei sistemi politici. E il sentimento di sfiducia nel processo democratico, in determinate circostanze, può essere favorito dai media che rappresentano lo spazio di costruzione del potere ma non la fonte della sua conservazione. Se i media di massa individuali, secondo Castells, sono lo strumento a disposizione del contropotere per affrancarsi dalle storture dei sistemi di potere, le armi a cui ricorrono i regimi (anche quelli democratici) per manipolare e controllare le coscienze sono state individuate ed elaborate dal linguista statunitense Noam Chomsky nel suo breve saggio "Le 10 strategie della manipolazione mediatica".
Esse sono:
1 - La strategia della distrazione. L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è anche indispensabile per evitare l’interesse del pubblico verso le conoscenze essenziali nel campo della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica. "Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali" (citato nel testo "Armi silenziose per guerre tranquille").
2 - Creare il problema e poi offrire la soluzione. Questo metodo è anche chiamato "problema-reazione-soluzione". Si crea un problema, una "situazione" che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà. Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3 - La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po' di anni consecutivi. Questo è il modo in cui condizioni socio-economiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte negli anni '80 e '90: uno Stato al minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.
4 - La strategia del differire. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come "dolorosa e necessaria" guadagnando in quel momento il consenso della gente per un'applicazione futura. E' più facile accettare un sacrificio futuro di quello immediato. Per prima cosa, perché lo sforzo non deve essere fatto immediatamente. Secondo, perché la gente, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che "tutto andrà meglio domani" e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all'idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento.
5 - Rivolgersi alla gente come a dei bambini. La maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantili, spesso con voce flebile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente. Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, tanto più si tende ad usare un tono infantile. Perché? "Se qualcuno si rivolge ad una persona come se questa avesse 12 anni o meno, allora, a causa della suggestionabilità, questa probabilmente tenderà ad una risposta o ad una reazione priva di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno" (vedi "Armi silenziose per guerre tranquille").
6 - Usare l'aspetto emozionale molto più della riflessione. Sfruttare l'emotività è una tecnica classica per provocare un corto circuito dell'analisi razionale e, infine, del senso critico dell'individuo. Inoltre, l'uso del tono emotivo permette di aprire la porta verso l’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o per indurre comportamenti …
7 - Mantenere la gente nell'ignoranza e nella mediocrità. Far si che la gente sia incapace di comprendere le tecniche ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. "La qualità dell'educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall'ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori" (vedi "Armi silenziose per guerre tranquille").
8 - Stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità. Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti ...
9 - Rafforzare il senso di colpa. Far credere all'individuo di essere esclusivamente lui il responsabile della proprie disgrazie a causa di insufficiente intelligenza, capacità o sforzo. In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l'individuo si auto svaluta e si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di depressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. E senza azione non c’è rivoluzione!
10 - Conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca. Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno creato un crescente divario tra le conoscenze della gente e quelle di cui dispongono e che utilizzano le élites dominanti. Grazie alla biologia, alla neurobiologia e alla psicologia applicata, il "sistema" ha potuto fruire di una conoscenza avanzata dell'essere umano, sia fisicamente che psichicamente. Il sistema è riuscito a conoscere l'individuo comune molto meglio di quanto egli conosca sé stesso. Ciò comporta che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un più ampio controllo ed un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su sé stessa.
Dunque, l'esasperazione del confronto/scontro fra mass-self communication, intesa quale nuovo modello libertario perseguito dai cittadini sul piano della dimensione virtuale, e strategie della manipolazione mediatica, realizzate più o meno subdolamente dai sistemi di potere ufficiali, può determinare scenari estremamente conflittuali e dagli esiti imprevedibili. Come quelli, tuttora sotto i riflettori, della ciberguerra condotta da Wikileaks contro la censura del governo americano o delle rivolte, dette anche rivoluzioni dei social network, che stanno infiammando diverse società arabe del Nord Africa e del Medio Oriente sottoposte a dure e decennali dittature.
Charles Mok, esperto nel campo delle tecnologie informatiche e fondatore della Hong Kong Internet Society, ha provato a dare una lettura originale di questi avvenimenti. Secondo il ricercatore, molto attivo anche nella società civile allo scopo di rafforzare il ruolo dei cittadini nel processo decisionale politico, i fatti in esame non possono definirsi "solo" come la rivoluzione di Twitter o di Wikileaks. "In qualsiasi cambiamento politico su larga scala, dare credito ad un unico fattore - che sia la scienza, l'economia o altro - non porta a un'analisi corretta", sostiene Mok. L'importanza dei social media non risiede quindi nel fatto che essi entreranno nella storia, bensì "nelle storie" che i reporter, gli osservatori e gli ascoltatori registrano e diffondono; quei blogger e quei netizen, cioè, che usano le tecnologie per dare vita a una "prima linea" dell'informazione autenticamente libera. In sostanza, non è possibile comprendere appieno l'importanza dell'intera questione se ci si limita ad individuare nel mezzo il protagonista principale. E per passare dalle parole in Rete alle rivoluzioni nelle piazze, occorrono dinamiche molto complesse.
E' qui che, tra i tanti motivi di discussione, nasce il dibattito più acceso a proposito del citizen journalism: si tratta di valore aggiunto o di impostura? Di un contributo all'informazione o di dilettantismo allo sbaraglio? Se si pone l'accento sul journalism a discapito del citizen, si finisce per perdere di vista l'altra faccia(oltre agli scontri di piazza non di rado filtrati da un giornalismo ufficiale troppo compiacente) delle rivoluzioni in atto: l'uso dei media e della Rete come strumento sociale, come mezzo per riprendersi la parola e farla circolare. In Tunisia e poi in Egitto, in Siria, in Bahrein, nello Yemen, in Libia, così come era accaduto prima in Iran, il filo conduttore è la parola - breve, semplice ed immediata - del cittadino. È l'immagine, magari "sporca" e sfocata, delle foto o delle riprese fatte con i telefonini. È, insomma, il tentativo di comunicare senza filtri e senza aspettare che una troupe televisiva venga a filmare il sangue o che un giornalista dall'altra parte del mondo venga a descrivere come si vive lì. Questa "intrusione" nel lavoro del giornalista mainstream ha forse un po' destabilizzato ma, nello stesso tempo, ha dato la misura di quanto il mondo sia più grande di quello segnalato e raccontato nel format di un giornale o nel breve spazio di un Tg.
A questo punto, tornando al dibattito iniziale sul giornalismo partecipativo, l'interrogativo dirimente è il seguente: quanto sono "rivoluzionari" i social media? Esistono, al riguardo, due correnti di pensiero contrapposte. Una è interpretata da studiosi come il bielorusso Evgeny Morozov, autore del libro "The Net delusion", e tende a smantellare il sogno dell'attivismo on line ritenendo che i social media altro non siano che uno strumento col quale i governi controllano i cittadini, entrando nei loro profili e perseguitandoli se si tratta di contestatori o oppositori, e che Internet addirittura stia abolendo la libertà. L'altra, invece, sostenuta dal saggista e docente di nuovi media alla New York University prof. Clay Shirky, al ruolo dei social media come motore di cambiamento sociale ci crede eccome, al punto da ritenere che la Rete abbia il potere di permettere ai cittadini di "organizzarsi senza organizzazione", di creare dal nulla nuovi modelli aggregativi basati sul coinvolgimento diffuso e sulla condivisione della conoscenza.
Resta il fatto che, al di là di ogni diatriba accademica, delle rivoluzioni, delle proteste e dei moti di scontento sono protagoniste le persone che sono scese e ancora scendono nelle piazze. Con le loro videocamere o i loro telefonini e utilizzando certamente anche il Web, per cercare di essere cittadini attivi. Per comprenderlo fino in fondo, si può ricorrere ad una felice formula estrapolata dallo studio "La comunicazione nell'era del digitale", del prof. Pier Cesare Rivoltella dell'università Cattolica di Milano: "i media digitali guidano la graduale trasformazione del profilo dell’utente dallo status di spettatore a quello di produttore". E' probabilmente questa, in ultima analisi, la reale essenza "rivoluzionaria" della reazione del contropotere civico all'opprimente dominio del potere, che goda o meno esso di legittimazione democratica: la possibilità per il cittadino/utente di produrre finalmente il racconto del fatto senza subire una informazione setacciata, filtrata, plasmata dalle autorità. Tendenza che potremmo chiamare, almeno per quel che concerne la volontà di sfidare le maglie della censura, effetto Wikileaks.
Spesso si è invocata in questi anni una rivoluzione digitale, ma dopo le imbarazzanti rivelazioni che hanno tenuto col fiato sospeso le diplomazie di tutto il mondo, più che di rivoluzione sarebbe meglio parlare di un processo incrementale, quasi di un'evoluzione darwiniana dei mezzi di comunicazione. Questo rende però di fondamentale importanza il ruolo che condizionamenti esogeni, come un intervento regolatorio, possono avere sull'evoluzione della tecnologia. "Non c'è dubbio che l'attuale quadro di regole sia ormai vecchio, anche sotto il profilo della governance - ha sostenuto in un'intervista a Repubblica, subito dopo l'esplosione del caso Wikileaks, il commissario italiano dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni Nicola D'Angelo -, e che quindi debba cambiare per adeguarsi a questo processo di convergenza dei mezzi e degli strumenti di comunicazione".
In effetti, la pressione con cui la comunità virtuale rivendica di essere informata, al netto di omissioni e censure, impone un approccio nuovo, di tipo antropico, con l'individuo al centro. Il tema, quindi, dovrebbe essere quello di mantenere nella Rete adeguate condizioni di libertà e di tutela dei diritti dell'utente. Anche se la moltitudine di informazioni non significa necessariamente maggiore libertà. Tanto che si pone un'ulteriore riflessione: la neutralità della ricerca. Sappiamo bene che esistono soggetti, non soltanto governativi, che gestiscono la grande massa di informazioni indirizzando e tracciando i nostri percorsi di ricerca e condizionando la nostra navigazione.D'altra parte, la tecnologia non si può arrestare e la stessa governance della rete ha resistito ai goffi tentativi di imbrigliarla, perfino in un Paese ad alto tasso di civilizzazione come il nostro soffocato da oltre tre lustri dall'anomala presenza del più palese conflitto di interessi di tutto l'Occidente.
Ebbene sì, la Rete resiste e reagisce anche nei contesti politici e sociali di maggiore criticità. Significa dunque che saremo più liberi di comunicare, che avremo un futuro migliore nell'uso della rete?Di nuovo Manuel Castells, nel suo saggio "Comunicazione e potere", scrive che non è la tecnologia di per sé ma sono le scelte regolatorie che ci porteranno da una parte o dall'altra. Internet è una formula di autogoverno imperfetta ma, piaccia o non piaccia, è ormai un paradigma sociale a cui forse anche la politica dovrebbe guardare non come un semplice mezzo ma come esperimento di libertà e di condivisione effettiva del potere.
La voglia di comunicare, di capire ed essere capiti è insita in ognuno di noi. E la consapevolezza dello scambio, della ricezione reciproca di ciò che si vuole comunicare innanzitutto nei nuovi spazi di partecipazione e di interrelazione pubblica, può alleviare quel senso di solitudine che ognuno porta dentro di sé, a maggior ragione nell'era del digitale. Avere la voglia di esprimere qualcosa verso gli altri, verso chi può captarci e capirci, si è detto che è una necessità naturale. Attraverso la comunicazione, l'uomo ha potuto mutare le strutture sociali nelle quali si è trovato via via ad operare nel corso dei secoli: partendo dalle tribù e dai piccoli villaggi, attraverso l'elaborazione di sistemi sociali sempre più complessi, ha alimentato un processo continuo, che ha consentito di giungere fino alla globalizzazione. La prima rivoluzione dell'informazione che si è avuta nella storia dell'uomo è stata costituita dal linguaggio, poi è venuta quella della rappresentazione, della scrittura e della lettura, seguite dalla rivoluzione dei mezzi di supporto su cui vengono registrate le informazioni (le tavolette di argilla, le incisioni su pietra, le iscrizioni su papiro e su pergamena, l'introduzione della carta); dopo secoli si è avuta l'invenzione della stampa e, successivamente, la rivoluzione tecnologica e quella informatica.
E' ormai evidente che l’informazione può essere comunicata in tempo reale ed in gran quantità tramite le moderne strategie che hanno notevolmente ampliato le possibilità di comunicazione. Ciò costituisce uno degli elementi fondamentali della transizione in atto nelle società moderne. Ogni attività umana è sottoposta ad una ristrutturazione avente come obiettivo l'amplificarsi delle potenzialità sia del mezzo sia dell'attività stessa. Il lavoro si svincola dalle costrizioni quotidiane degli spostamenti e dei confini spaziali, la scuola si attrezza ad instaurare un proficuo rapporto con le nuove tecnologie, incorporandole e adattandole alle sue esigenze educative. Tutto questo grazie anche ad Internet che ormai rappresenta un elemento essenziale della vita quotidiana, economica e culturale del pianeta.
Scrive Silvia La Montagna nell'intervento "Come è cambiata la comunicazione nel Terzo Millennio?", pubblicato sul web-magazine Comunicazioni & Mobile Radio, che le caratteristiche originarie proprie di questo potente mezzo (immediatezza, decentralizzazione, interattività, globalità, libertà, diffusione e condivisione del sapere) contengono insieme a tali pregi, purtroppo, anche dei rischi: individualismo esagerato, accesso dei bimbi a contenuti pericolosi, invasione della privacy. Pertanto, è tutta la società che deve essere educata all'uso di questi potenti mezzi che non sono solo strumenti tecnologici ma elementi fondamentali dello sviluppo culturale contemporaneo. In fin dei conti, almeno per quel che riguarda la realtà italiana, parafrasando "l'Apologia di Socrate" di Platone potremmo dire: la tecnologia è un bel cavallo, bisogna capire da che parte ci porta... "il Cavaliere".
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