Pubblicato da roberta maciocci
Cari lettori, si fa presto a dire Shakespeare. Investita di un compito a dir poco arduo, quello di introdurre il nostro “Speciale Shakespeare”, sento di dovermi esprimere con quella classica battuta che è “Qualcuno deve pur farlo”: anche se, in questo caso, è tutt’altro che un “lavoro sporco” come si direbbe in un film di gangster. Vorrei intanto definire questa nostra impresa collettiva per quello che non è: difatti, non aspettatevi una enumerazione caotica di opere e dati, una impresa che ricalchi più dettagliatamente ciò che potete trovare tranquillamente su Wikipedia, o “sul Bignami”, per citare una fonte antica di notizie propedeutiche ad una infarinatura generale su argomenti specifici. Affetta cronicamente da Bardolatria fin dalla tenera età, credo di interpretare anche il pensiero delle amiche blogger di DIARIO, nel comunicarvi che il nostro è un omaggio al drammaturgo che più ha saputo fotografare l’animo umano. Colui che ne è stato capace alla stregua di quello che ancora si ritiene in alcune culture indigene, vale a dire che la fotografia rubi l’anima al soggetto immortalato. Ed è proprio lì che risiede la longevità delle opere di Shakespeare: l’uomo, interiormente, da secoli, rimane sempre lo stesso, re o buffone che sia.
Shakespeare continua a sovvertire la regola aristotelica di unità di luogo, tempo e spazio per la rappresentazione: non solo nei suoi plays, quando sviluppa azioni durate anni e svoltesi in luoghi diversi in un breve lasso di tempo, ma soprattutto sopravvivendo al tempo quando non anticipandolo. Neanche la divisione fra tragedia e commedia resiste a Shakespeare: non nell’accezione che vede protagonisti della prima per tradizione gli appartenenti ai ceti alti, la seconda il popolo e neanche in quella tematica, quella che vede la tragedia finir male e la commedia corredata invece di un lieto fine.
Amiamo il Bardo delle commedie, dal Sogno di una notte di mezza estate a Molto rumore per nulla, quello delle tragedie e dei drammi storici. Amiamo e soffriamo empaticamente con i suoi personaggi: Amleto, Lear, Sir John Falstaff, prorompente nel fisico e nella personalità, per citarne alcuni. E Shakespeare ci sorprende ancora una volta nella fase “crepuscolare” – cronologicamente e non qualitativamente parlando – quella dei romances: Cimbelino, Pericle, La tempesta ed Il racconto d’inverno. Attraverso i romances, se, per dirla alla HaroldBloom Prospero ne La tempesta è il corrispettivo di Faust in Marlowe, Shakespeare non vuole essere il Faust di se stesso: abbandona la sua onniscienza ambiziosa e lascia spazio alla riconciliazione tra esseri umani. Il discorso di Prospero forse non va interpretato come unaddio alle scene ma un emendamento dell’umano da parte di Shakespeare. Il Bardo riconosce la fallibilità dell’Essere Umano, che egli stesso ha rappresentato nei suoi accessi ed eccessi. Nei romances, vale la regola del flusso e riflusso della marea: le tempeste ed i temporali si placano, e le sofferenze lasciano il posto al ricomporsi dell’armonia. La tempesta atmosferica, direttamente proporzionale alla sofferenza ed all’ira di Lear, o gli sconvolgimenti emotivi e logistici che si attuano nella mente di Amleto e nella corte di Danimarca rappresentavano la visione del mondo dell’epoca: da non dimenticare infatti che il monarca possedeva un corpo “fisico” ed uno “politico”, e quando veniva meno la stabilità del suo ruolo di guida tutto diventava, a ricaduta sul suo popolo, out of joint, fuori squadro. Era la riproduzione di un microcosmo speculare al macrocosmo delle nove sfere celesti.
Tuttavia tanto ci sarebbe ancora da dire e tanto è stato detto: si rischia facilmente di essere pedanti e/o superficiali. Lasciamo che per il nostro DIARIO DI PENSIERI PERSI siano altre parole, seriamente documentate ma, ci auguriamo, originali a rendere omaggio a William Shakespeare ed a coinvolgervi nella nostra non facile ma entusiasmante impresa.
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