Interviste27/06/2013
Creme, pasta, condimenti. Tutto rigorosamente al tartufo. E 100% made in Italy. Non è da tutti decidere di lasciare un posto fisso per fare un salto nel buio aprendo un’attività di lavorazione artigianale del tartufo e avere rapidamente successo, con un 70% di distribuzione all’estero.Pamela Fattori, 31 anni laureata in Cultura d’impresa prima e in Management Internazionale poi, ha avviato insieme al socio 36enne Simone Urbinati Italiatartufi, tra Caglio e Acqualagna (Pesaro e Urbino) per seguire un sogno e dare spazio all’intraprendenza.
Pamela, come nasce la voglia di mettersi in proprio in un settore molto particolare come quello dei tartufi?
«Nasce da un sogno e per scherzo, dalla tenacia e dalla passione mia e di Simone Durante l’università ho sempre pensato che, per me, studiare e conseguire una laurea avesse il senso di poter fare, un domani, un lavoro che mi facesse sentire “libera” e che fosse gratificante. Dopo la laurea ho fatto stage, lavori a progetto e infine ho avuto un contratto d’apprendistato come impiegata commerciale estero presso un’azienda di tartufi, ma nei fatti svolgevo un ruolo da manager. In quel periodo ho conosciuto Simone , che era rappresentante per una multinazionale, e un giorno parlando abbiamo scoperto che entrambi avevamo il sogno di creare qualcosa di proprio, in cui crescere e in cui investire capitale umano. Così abbiamo unito intraprendenza e creatività aprendo un’azienda tutta nostra nel campo dei tartufi».
Come si diventa tartufai?
«Innanzitutto, bisogna sfatare il mito che avere un’azienda di tartufi voglia dire soltanto avere dei cani ed andare a tartufi. Di cani per ora ne abbiamo 12, ma il lavoro di “tartufai” riguarda appena il 5% della nostra attività perché da solo un tartufaio non potrà mai raccogliere tutto il tartufo che serve per un’azienda. Ogni azienda si avvale di tanti tartufai di fiducia, che si dedicano alla raccolta del tartufo. Comunque per andare a tartufi ci vuole uno specifico tesserino e bisogna seguire dei corsi. Per quanto riguarda la certificazione, questo invece è un aspetto legato all’azienda. Noi abbiamo deciso di certificare la nostra attività come 100% made in Italy e siamo gli unici ad averla nel nostro settore».
In cosa consiste il vostro lavoro?
«In buona parte nel selezionare i tartufi tra quelli che verranno venduti e spediti freschi e quelli destinati alla lavorazione. Nel curare e gestire i rapporti con clienti italiani ed esteri, fiere di vendita e di rappresentanza, nel preparare i prodotti conservati a base di tartufo: sale, olio, salse, condimenti, e nel crearne di nuovi. Attualmente abbiamo tre linee di prodotti, e a grandi linee io gestisco tutto ciò che è inerente alla produzione e all’export; Simone agli acquisti e ai clienti in Italia».
Esportate all’estero?
«Sì, e al momento il mercato estero rappresenta un buon 70% del nostro fatturato ed è una quota in crescita. I nostri mercati sono: Europa (Francia, Germani, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svizzera), Thailandia, Russia, Bangkok, Australia e stiamo regolarizzando la nostra azienda per l’export verso gli Stati Uniti. Una nuova sfida, dato che l’esportazione è abbastanza complessa, per via delle normative esistenti, ma non ci spaventa».
Ti torna utile il tuo percorso di studi?
«Certamente, sia la laurea in lingue (inglese, spagnolo) che quella in economia. La laurea è una buona base che ti consente di non sentirti uno “sprovveduto”, tuttavia è sul campo che si impara a giocare».
Quanto bisogna investire per avviare un laboratorio di tartufi?
«Redigere un business plan è necessario ma non basta. Nel senso che, per quanto si possano preventivare delle spese, poi quando si va a mettere mano al tutto, gli investimenti diventano superiori a quelli preventivati. Questo perché non ci sono solo i costi fissi relativi alla creazione di un laboratorio e di una sede fisica, ma tanti altri che emergono nel corso del lavoro, tra cui partecipazione a fiere di vendita e di rappresentanza, materiale promozionale e tante altre spese di cui ti rendi conto nel momento in cui hai un prodotto in mano e vuoi venderlo nel modo migliore».
Quali le maggiori difficoltà fino ad ora?
«Quelle legate alla burocrazia e ai suoi tempi. L’Italia è un paese con tante risorse ma ciò che manca è un sistema che affianchi chi vuol mettere in pratica idee e portare qualcosa di nuovo, in tutti i settori. Tutti parlano di contributi o fondi, noi non ne abbiamo visto mezzo e abbiamo capito che anche quelli sono solo per le aziende che già camminano con le proprie gambe, mentre se parti da zero come noi, sei costretto a rimboccarti le maniche e non farti illusioni».
Nel concreto?
«Per accedere ad un qualsiasi fondo o contributo occorre pagare delle spese di istruttoria (sui 2000 euro per intenderci), pagare a qualcuno del mestiere che gestisca la pratica (anche questo ha un costo) una percentuale di quanto eventualmente sarà erogato. Se un’azienda è una start up, quei soldi che deve spendere per partecipare a un qualsiasi fondo o contributo, sono fondamentali per la gestione ordinaria dell’attività ordinaria».
Sei e siete felici della scelta fatta?
«Sì, perché ci svegliamo la mattina per fare un lavoro che ci piace. E poi perché crediamo nelle nostre capacità, e quanto fatto finora fortunatamente ce lo conferma, e personalmente ho anche una gratificazione economica che da dipendente non avrei mai potuto avere».