Magazine Attualità
Il padrone di casa entra in cucina, quasi per inerzia, ad accoglierlo ci sono solo rumori di fondo provenienti dalla strada. E’ solo in casa. O così crede. La macchina da presa coglie il dettaglio di due piedi femminili, come circospetti, ma sensibili, elettrici, desiderabili, dalle dita disegnate bene ma con una curvatura velenosa, depistante, e la donna varca la soglia ed entra anche lei in cucina.
Dice che pensava di essere sola in casa e che stava per andare a letto ma che ha udito dei rumori. Lui si sorprende, le chiede come mai non fosse andata a Manchester, lei risponde che il suo fidanzato l’ha rispedita lì, non si sentiva bene. Il dialogo avviene sotto la malizia di un diligente campo/controcampo. Qui il piano sequenza caro a Bazin avrebbe compromesso l’effettato scambio tennistico (top spin-to?) trasformandolo in una partita da pallettari, avrebbe nociuto a quel senso di apparizione ogni volta più sporgente dei due contendenti (di questo si tratta: l’amore carnale finisce quando non si è più rivali, quando il match si conclude); a quella immobilità iniziale che solo gli stacchi possono continuare a convalidare a ritrovare a esacerbare a necrotizzare ad animare, a quei primi piani che si sgretolano come manufatti approssimativi sotto gli sguardi reciproci.
Il campo/controcampo cede però di fronte a un’inquadratura fatale, che sembra esemplificare gli idraulici meccanismi di quello che si sta compiendo: il lavandino che continua a sgocciolare (come un rumore di passi minaccioso, come lo stillicidio di un elenco di nomi pronunciati). E’ la colonna sonora del desiderio, dello sgomento, dell’ansia di possesso del padrone di casa. E’ anche un esempio sottilissimo di climax interiore. Il lavandino non smette di sgocciolare, il padrone di casa sembra aspettare che la (sua) misura sia colma, che la tensione raggiunga il suo apice; e un attimo prima di una sorta di indeterminabile e irreparabile culmine sonoro, si muove e chiude il rubinetto. E’ un uomo che non sempre fa quello che ha il potere di fare, ma sempre fa quello che può disfare.
Non ha forse grande disinvoltura con lo spazio, resta ingabbiato, resta fedele al punto in cui si trova, ma ci sa fare con il tempo, conosce l’importanza del tempismo che gli serve. E’ un altro rumore, quello di un telefono che squilla, a mandare in frantumi l’avvicendarsi delle inquadrature, ora la ripresa è una ripresa d’insieme, lui e lei in campo. Una specie di irruzione della realtà in questo incantesimo maligno, in questa apnea stregante. O forse l’unico suono significante tra parole che sono solo contagocce, calcoli che si fanno nel deserto per non perdere la ragione, prime di servizio che vanno a rete per la pallina lanciata troppo in alto: dissuasori e dunque insieme propulsori dell’azione erotica la cui imminenza, come si sa, è già guglia, tetto a due spioventi del godimento che decelererà, requiem della consumazione che avverrà. Insomma, allarme antincendio al suono del quale ci si butta, un po’ suicidi, tra le fiamme.
Come lei si adagia sul tavolo è roba da maghe, con quelle gambe piegate che sono un Schiele lucidato da Hopper, con la mano sotto la vestaglia che è un gesto di potere e potenza, di resa e rete. Lui non può non avvicinarsi, fa un commento su una gonna troppo corta (pensa già agli altri uomini, è già geloso, anche solo per pochi secondi). Il telefono ha cessato di squillare. Lei guarda quasi in macchina ma lui le è di fianco, la servetta alza un braccio e con la mano cieca (la stessa sotto la camicia, poco fa) gli sfiora la faccia.
Lui accenna a baciarla, ma un bacio sulla mano adesso è fuoritempo e lui il tempo lo comprende, ora è il momento di prendere tutto, senza sineddoche, senza manipolazioni, e in un attimo sono sul tavolo sempre più padrone e serva, ma uomo e donna, i piedi di lei che balenano come due incendi in combutta, e una cucina inutilmente ampia che si riduce agli spigoli del tavolo con tutti i rumori di fondo che tacciono. Viene ora una dissolvenza incrociata (un’immagine che sviene e un’altra che rinviene), siamo all’esterno, inquadrato è l’asfalto bagnato, poi alberi dalle ramificazioni crude e monotone e un viale inquadrato obliquamente (come la curva di un piede) ma che subito si raddrizza (come un corridoio) e conduce lo sguardo: verso niente.
Francesco Romeo | #spioncino
Showers on a tennis field
Double game in The Servant by J. Losey
The master enters the kitchen, almost by inertia, and waiting for him are only the background sounds coming from the street. He's alone. Or at least that's what he thinks. The camera grasps the detail of two female feet, as suspicious, but sensitive, electrical, desireable, with well drawn toes but with a venomuos, confusing curve, and the woman enters the kitchen as well.
She says that she thought she was alone at home, and she was about to go to bed, but she heard noises. He is surprised, asks how come she didn't go to Manchester, she answers that her fiancèe sent her back, he wasn't feeling very well. The dialogue happens under the malice of a diligent field/counterfield. Here the sequence place so dear to Bazin would have compromised the tennis exchange (top spin-to?) transforming it in a game of balls, it would have harmed the sense of apparition which gets more evident each time for each contendent (this is what it is all about: carnal love ends when you're not a rival anymore, when the match is over); to that initial immobility that only the continous shifts can continue to validate, to find, to exasperate, to necrotize, to animate, to those closeups that fall apart like aproximative manufacts under the looks.
The field and counterfield gives in to a fatal scene, that seems to mimic the hydraulic mechanisms of what's going on: the sink keeps dripping (like a threatening sound of steps, like the pain of a list of names called out loud). It's the soundtrack of desire, of amazement, of the possess fury of the master. It's also a subtle example of interior climax. The sink keeps dripping, the master seems to wait for the measure to be filled, that the tension reaches its peak; and one moment before some sort of indetermined and unfixable sound peak, he moves and closes the tap. He's a man that not always does what he has the power to do, but always does what he can undo.
Maybe he doesn't have so much confidence with space, he remains trapped, faithful to the point he's in, but he has a thing for time, he knows the importance of timing. It's another sound, the sound of a ringing phone, to shatter the exchange of scenes, now the scene is a global one, him and her on the field. Some sort of irruption of reality in this malignant magic, in this witchery apnea. Or maybe the only significant sound among words that are only drops, calculations done in the desert to avoid losing your mind, first services that go out because the ball went too high: dissuasors and propulsors of the erotic action which we see imminent as a peak, a roof of the enjoyment that will decrease, requiem of the consumation to come. So basically a fire allarm which pushes us, suicides, in the flames.
How she sits on the table is witch like, with those legs like a Schiele polished by Hopper, with the hand beneath the blous that is a gesture of power, of defeat and entrapment. He cannot avoid coming closer, makes a comment about the short skirt (he's already thinking about other men, he's jealous, but only for a few seconds). The telephone has stopped ringing. She almost looks into the camera but he's beside her, the servant raises an arm and with a blind hand (the same under her blouse a moment before), touches his face.
He hints to kiss it, but a kiss on the hand now is out of time and he understands it, now is the moment to take it all, without manipulations, and in an instant they're on the table, even more master and servant, but man and woman, her feet showing like two fires, and a uselessly big kitchen that is reduced to the table's corners with all other sounds now quiet. Now there's a crossed dissolvence (an image that collapses and another that comes to life), we're outside, with a closeup of the wet asphalt, then trees with cruel and monotone ramifications and an oblique path (like the curve of a foot), but that immediately gets straight (like a corridor) and guides the look: towards nothing.
Francesco Romeo | #spioncino
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