Magazine Attualità
Il titolo è una versione spinta del noto paradosso di E.A.Poe alla base del racconto La lettera rubata, in cui appunto il documento che inchioderebbe il presunto responsabile di un assassinio non si riesce a trovare dopo le più accurate ricerche: l’assassino la fa franca mettendo la lettera in bella mostra al centro della sua scrivania.
In questo film l’assassinio è nascosto dalle luci; anche se in realtà presto sapremo che si è trattato di un auto-assassinio (ciò che appunto è confacente alla segnatura autoriflessiva dell’opera). Un morto, pertanto, occulta se stesso. Si tratta del conte proprietario del castello. In fin di vita per una malattia al cuore, indossa l’abito dei Cavalieri di Malta, e si ritira in un vano che si trova dietro lo specchio della sua stanza. Muore dando corda a una bambola che suona l’arpa: quando la musica della finta arpa cessa, cessa il respiro del conte. Muore tenendo in mano la sua Rosebud, il suo fattore di incessante connivenza con l’oro dell’infanzia, il feticcio con cui “slittare” nel proprio passato remoto (un’arpa lo arpiona). Il suicidio come una delle belle arti.
Il curatore testamentario spiega agli eredi designati che clinicamente non c’è dubbio che il conte sia morto, ma che l’eredità non potrà essere conferita prima di 5 anni se il cadavere non sarà ritrovato. Intanto, vediamo il corpo del conte con gli occhi ormai spenti che “guarda” verso i suoi parenti già in lite tra loro nella stanza. Lo specchio infatti è come quello dei “riconoscimenti” della polizia. Gli aspiranti eredi sono già (architettonicamente) gli indiziati. E il conte? Il conte è appunto il nostro “corrispondente”, una versione post mortem di noi spettatori, “fissato” in una poltrona speciale di fronte al dipanarsi delle vicende dei famelici eredi. Il castello è lì ma inafferrabile.
E’ il castello di Kafka. Anzi, in questo caso l’autore in un certo senso si spinge oltre. Kafka installava la sua anticamera perpetua (per dirla con Kundera e alludendo, attraverso la parola italiana, alla macchina da presa o a quella ur-macchina da presa che è la realizzazione della sceneggiatura) ai piedi del castello; il conte fa del castello l’anticamera beffarda di se stesso. La linea invalicabile che bloccherà all’interno del palazzo i protagonisti di L’angelo vendicatore di Bunuel è già tracciata, nessuno potrà avere il castello, nessuno uscirà dal castello. Ma parte ugualmente la caccia al tesoro. Il tesoro è il cadavere del conte.
Nel frattempo la ragazza di uno degli insoliti cercatori d’oro ha un’idea per far fruttare il castello in modo che si possano pagare le eventuali tasse relative. Ricostruire attraverso luci e suoni, e nei posti reali, la leggenda di tradimento e uccisione che risale al medioevo e a quel conte che fu primo proprietario del castello. Si impiantano luci e megafoni, gli abitanti forzosi del castello si cimentano in duelli perché i rumori delle spade che si incrociano siano registrati e al momento giusto riprodotti, e via proseguendo. Insomma si fa cinema, cinema ricondotto al suo scheletro elettrico o alla sua filigrana incandescente di suoni e luci. “Ad arte”. Senza smettere intento di cercare.
La mia opinione è che il vero tesoro che si sta cercando sia il cinema stesso. Che per dar vita alle sue singole visioni e ai suoi singoli racconti ogni volta muore. Ogni volta si inventa una tomba. Lasciando a noi spettatori, novelli Buoni Brutti e Cattivi, di rintracciarla in un cimitero eslege e dilatato, con l’onere e la facoltà di adoperare per la ricerca gli stessi materiali di cui è fatto l’oggetto ricercato, proprio come si dà la caccia a un fuggiasco attraverso l’odore dell’evaso sfruttando oltre che l’olfatto speciale dei cani un brandello di vestito dell’evaso. Come nella reggia di Xanadu le statue innumeri e il ricco bestiario dei giardini, gli arredi di mille stanze e i seriali specchi, rendono C.F.Kane moltiplicatamene solo, così il cinema ogni volta sguinzaglia la sua ombra e propala il suo silenzio tramite il coacervo di barbagli e rumori di ogni storia narrata.
Il cinema insiste a sfarsi sineddoche di se stesso (sibilando). Gioca a nascondino con la infallibile vitalità di un gruppo affiatato di bambini e si polverizza come un suicida nel crepitio e nel fulgore di un rogo in cui fiamma cancella fiamma (per Adorno la grande opera d’arte si realizza tendendo alla distruzione di se stessa). Il cinema procrastina nell’ opera attuale la rivelazione della sua propria essenza (ma ogni volta la scorderemo): vita vestita in abito ornato e antico e nuda morte. Come un elegante ardente Cavaliere di Malta. Come un’arpa suonata da mani competenti che sono sul punto di gelarsi.
Francesco Romeo | #spioncino
Spotlight on a murderer
The title is an exaggerated version of the renown E.A.Poe paradox at the base of the story "The stolen letter" in which the document that would incriminate the responsible of a killing isn't found even after the most accurate research: the killer manages to escape by putting the letter in full sight in the middle of his desk.
In this movie the murder is hidden by lights; even though in reality we'll soon find out that it was an auto-assassination (which is very adequate in the autoreflexive nature of the work). A dead man hides himself. It's the count, owner of the castle. At the end of the rope because of a heart condition, he wears his Malta Chevaliers outfit, and goes into a secret vane behind the mirror of his room. He dies stretching the rope of a doll playing the harp: when the music of the fake harp ends, soo does the count's breathing. He dies with his Rosebud in his hands, his factor of constant connivence with the gold of childhood, the fetish with which to slide back in the past (a harp harpionates him). Suicide as an art.
The testament curator explains to the designated heirs that clinically there is no doubt that the count is dead, but that the inheritance will only be given after 5 years, if the body isn't found. In the meanwhile, we see the body of the count with his eyes now lifeless, "looking" towards his relatives already fighting among them in the room. The mirror is like the ones used for recognitions of the police. The aspiring heirs are already "architectonically" the suspects. And the count? The count is our "correspondent", a post mortem version of us viewers, "fixed" in a special seat in front of the stories of the greedy heirs. The castle is there, but unreachable.
E’ il castello di Kafka. Anzi, in questo caso l’autore in un certo senso si spinge oltre. Kafka installava la sua anticamera perpetua (per dirla con Kundera e alludendo, attraverso la parola italiana, alla macchina da presa o a quella ur-macchina da presa che è la realizzazione della sceneggiatura) ai piedi del castello; il conte fa del castello l’anticamera beffarda di se stesso. La linea invalicabile che bloccherà all’interno del palazzo i protagonisti di L’angelo vendicatore di Bunuel è già tracciata, nessuno potrà avere il castello, nessuno uscirà dal castello. Ma parte ugualmente la caccia al tesoro. Il tesoro è il cadavere del conte.
Nel frattempo la ragazza di uno degli insoliti cercatori d’oro ha un’idea per far fruttare il castello in modo che si possano pagare le eventuali tasse relative. Ricostruire attraverso luci e suoni, e nei posti reali, la leggenda di tradimento e uccisione che risale al medioevo e a quel conte che fu primo proprietario del castello. Si impiantano luci e megafoni, gli abitanti forzosi del castello si cimentano in duelli perché i rumori delle spade che si incrociano siano registrati e al momento giusto riprodotti, e via proseguendo. Insomma si fa cinema, cinema ricondotto al suo scheletro elettrico o alla sua filigrana incandescente di suoni e luci. “ad arte”. Senza smettere intento di cercare.
La mia opinione è che il vero tesoro che si sta cercando sia il cinema stesso. Che per dar vita alle sue singole visioni e ai suoi singoli racconti ogni volta muore. Ogni volta si inventa una tomba. Lasciando a noi spettatori, novelli Buoni Brutti e Cattivi, di rintracciarla in un cimitero eslege e dilatato, con l’onere e la facoltà di adoperare per la ricerca gli stessi materiali di cui è fatto l’oggetto ricercato, proprio come si dà la caccia a un fuggiasco attraverso l’odore dell’evaso sfruttando oltre che l’olfatto speciale dei cani un brandello di vestito dell’evaso. Come nella reggia di Xanadu le statue innumeri e il ricco bestiario dei giardini, gli arredi di mille stanze e i seriali specchi, rendono C.F.Kane moltiplicatamene solo, così il cinema ogni volta sguinzaglia la sua ombra e propala il suo silenzio tramite il coacervo di barbagli e rumori di ogni storia narrata.
Il cinema insiste a sfarsi sineddoche di se stesso (sibilando). Gioca a nascondino con la infallibile vitalità di un gruppo affiatato di bambini e si polverizza come un suicida nel crepitio e nel fulgore di un rogo in cui fiamma cancella fiamma (per Adorno la grande opera d’arte si realizza tendendo alla distruzione di se stessa). Il cinema procrastina nell’ opera attuale la rivelazione della sua propria essenza (ma ogni volta la scorderemo): vita vestita in abito ornato e antico e nuda morte. Come un elegante ardente Cavaliere di Malta. Come un’arpa suonata da mani competenti che sono sul punto di gelarsi.
Francesco Romeo | #spioncino
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