MARCO VIGNOLO GARGINI
SPUNTI DI VITA
Le chiavi sbattute senza tanto ritegno sul tavolo del soggiorno, la corsa in camera con la voglia di stramazzare in un pianto dirotto. Doris s’era trattenuta fino al termine del suo turno in ospedale, trattenuta in auto, trattenuta in ascensore, ma, tornata a casa, alla vista del suo letto lasciato in disordine dopo una notte mesta e solitaria, troppo uguale alle notti abituali della sua vita, aveva aperto il serbatoio delle sue lacrime. E piangeva come non aveva mai fatto. Piangeva un’ambizione distrutta, ma soprattutto la tragica scomparsa dei suoi genitori, uccisi nel sonno dalle esalazioni di una stufa difettosa; si disperava torcendo la federa del cuscino, perché avrebbe desiderato riunire la propria famiglia…
Telefonare all’amica del cuore, informarla della sua disperazione, piangendo e piangendo, poi un bisbiglio che non avrebbe modificato di una virgola la mortificazione di questa infermiera, inetta a curar se stessa mentre curava gli altri, distrattamente.
Telefonare all’amica del cuore che magari se ne sta buona buona a vedere la TV, un vecchio film in bianco e nero con James Stewart.
Telefonare all’amica del cuore per annunciare la volontà di farla finita: « Vorrei raggiungere i miei cari, se non ci fosse lo strazio delle loro espressioni tristi che mi rimproverano: “Ma come! Noi che speravamo molto e ci eravamo tranquillizzati sulle tue possibilità!”. No, li rivedrò e spiegherò tutto, cercherò di far loro il minor male… »
Ancora sul letto ridotto a dune di coperte e lenzuola, Doris prese di scatto il telefono per chiamare l’amica.
« Pronto, sei tu Donatella? Sto malissimo… »
« Mi spiace signorina, ma non sono Donatella… Ha sbagliato numero. »
« Non è il ********** ? »
« No, questo è il **********… sono desolato, signorina… Non pianga, la prego, non pianga per così poco. Sbagliare un numero non è la fine del mondo! Adesso mi perdoni, la devo proprio lasciare. Arrivederci. »
Che ne sapeva lui di quel pianto? Mettersi a lacrimare sconsolata per un numero sbagliato? Come si fa a pensare una sciocchezza del genere e poi dirla addirittura? Povera Doris. Non solo non trovò Donatella, ma si imbatté pure in un trentenne vanesio e svagato, perso in quel preciso momento a coltivare i suoi piccoli pensieri. Gustavo Furia.
« Dov’ero rimasto? Ah, dovevo chiamare Patrizia! Ma chi sarà stata Donatella? Mi piacerebbe conoscerla. Anche la donna che piangeva perché aveva sbagliato il numero mi piacerebbe conoscerla. Aveva un che di sexy… Che tenerezza! Ero commosso. Per un attimo ho creduto di risentire la voce di Luisa. Luisa… Sono già passati tre anni dal giorno della separazione e io sono ancora qui, vivo e vegeto. Che stupido! Mandai un’e-mail a Leo per dirgli che ero distrutto, che la mia vita non aveva senso senza di lei. Volevo morire.»
Voleva morire? Ma andiamo! Il nostro amante disperato nella sua prima e-mail a Leo aveva effettivamente scritto frasi tipo “che cazzo ci faccio al mondo?”, “Luisa non c’è più e io nemmeno”, “come potrò superare tutto, tirare avanti se per anni avrò ancora il suo volto nella testa?”, e le aveva giustificate raccontando la terribile fine della sua storia d’amore, la scenata di lei che lo abbandona per un altro, un altro che, naturalmente, non valeva nulla ed era buono solo per scopare. Però, nella seconda e-mail, sempre a Leo, ecco che, a distanza di due soli giorni, quella infinita volontà di suicidio era svanita: Luisa era morta e sepolta, adesso lui si sentiva meglio e si stava innamorando della sua nuova compagna. Leo commentò: «Siamo d’accordo, “chiodo scaccia chiodo”, ma tu, mi sembra, hai fatto un po’ presto a sfilare il tuo per ficcarlo in un’altra cavità. No? È bastato che entrasse “la nuova compagna” perché il tragico e ardente amore per cui stavi per andare al Creatore finisse così… come per incanto!»
Gustavo Furia, indignato, rispose a Leo dichiarando la rottura della sua amicizia con una persona “insensibile”, “moralista”, “incapace di provare un vero sentimento”. Praticamente aveva fatto un autoritratto di sé e lo proiettava sull’ex amico, reo d’averlo soltanto contraddetto sbattendogli in faccia il suo comportamento frivolo.
Gustavo Furia era questo e altro. Diamo una descrizione. Figlio unico, allevato da genitori premurosi, comprensivi, tolleranti, accontentato in tutto, viveva tuttora alle spalle della famiglia, con uno straccio di professione per copertura. Cosa mangiava abitualmente? Uno stomaco senza fondo, sebbene talvolta spuntasse l’hobby della dieta: verdura lessa, minestrone, frutta cotta; integratori alimentari a pranzo, regolare cena con pasta ma senza pane; festival della cucina priva di burro, di grassi animali, ricca di pesce e condita con spezie.
E la sua educazione, il suo background culturale? Si diceva anarcoide, posava a eccentrico, anticonformista, era in apparenza di larghe vedute, in realtà sotto il suo costume da ribelle giaceva una natura conservatrice, egocentrica e ottusa. In sintesi, Gustavo Furia considerava l’altra metà dell’androgino, la donna, una splendida entità, una dispensatrice di piacere, quando assecondava la sua vanità, una mezza calzetta, una stronza integrale, quando osava dire di no e mollarlo. La brava e onesta donna doveva essere “sua” e apprezzare le doti e le strampalate teorie di questo figlio dei fiori di plastica.
Gustavo avrebbe desiderato diventare padre senza avere una moglie o una convivente, preferiva le amanti, si diceva soddisfatto di questa sua libera condizione, che era solo una fuga dalle responsabilità; veniva ammirato dai suoi compagni di ventura, gli “amici” sottomessi alla prestanza, alla pesantezza di tanta coglioneria.
Ah, non dimentichiamo il gioco, il tavolo verde et coetera, il gioco che occupava un posto preminente nella vita vuota di detto eterno adolescente.
« Un tempo ero continuamente in viaggio. Partivo per andare a Montecarlo, a Nizza, a Sanremo, e lo decidevo così all’improvviso… Sarei andato anche a Las Vegas! A parte Las Vegas, mica mi son fatto mancare il paradiso dei veri giocatori! Ho giocato notti intere, senza sosta, su per i tavoli della roulette, del chemin de fer, del baccarat, e se c’era una bisca non gestita dai soliti terroni, beh, io mi ci fiondavo anche su quella, non importava dove diavolo si trovasse… Io partivo. Bei tempi! Ora mi sono un po’ stufato… Sì, me ne sto delle sere a trascinarmi per i consueti locali di questa lurida città, e il tempo non mi passa mai. Non mi riconosco più! »
Gli successe, come succede talora, di fermarsi per dei minuti a guardare in aria un punto fantastico che racchiude la somma delle immagini, dei proponimenti, dei pensieri. Ecco, dei pensieri. E lì Gustavo Furia arrestava il suo agire irrequieto per domandarsi se in effetti fosse il caso di dare un taglio alle infinite sciocchezze che da sempre lo occupavano. Gli agi della ricchezza ereditata e mai guadagnata potevano mai individuare qualcosa al di là delle ripetitive, deludenti abitudini mondane? Questi suoi spostamenti frenetici, patetici, chilometri bruciati per sotterrare il tedio, le spese sconsiderate e immotivate, non erano il segno della sua completa inutilità su questa terra? Dov’era la risposta? Gustavo Furia era una persona superficiale, talmente superficiale che uno scricchiolio di un mobile era più che sufficiente per distrarlo e staccarlo dal suo angusto angolino delle riflessioni. Tornava alla comodità del suo niente. Che sollievo!
Il telefono squillò ancora.