“Più di tutto mi manca lo spirito. Il gruppo, i compagni, gli amici, fare lo zingaro. Ecco cosa mi manca.”
Stefano Agostini ha venticinque anni, è stato campione italiano Under 23 nel 2010 e ha corso con la Cannondale fino al 23 agosto 2013. Il 21 settembre è stato trovato positivo ai controlli antidoping.
Ma la storia di Stefano non è uguale a nessun’altra. Forse è una di quelle storie che ci fanno capire quanto il mondo del ciclismo debba rendersi conto che i suoi corridori, i ragazzi-eroi che butta sulle strade in pasto alla gente e alla voglia matta di spettacolo, non sono animali da corsa.
Stefano è appena tornato dall’America dove era stato con la squadra per disputare una gara e uno sfogo al gluteo sinistro tormenta i suoi allenamenti. La situazione non accenna a migliorare e con quel disturbo fa anche fatica a dormire. Una notte si mette una pomata consigliata dal medico, un farmaco da banco, acquistabile senza ricetta. Un velo di crema per mettere un po’ a tacere il dolore.
Il giorno dopo i controlli antidoping suonano al campanello e compilando i soliti moduli per dichiarare quello che il ciclista ha assunto, Stefano segna anche il nome di quella pomata. Dopo il controllo chiama il dottor Corsetti, medico della sua squadra, per informarlo. Tutto tranquillo, fino a che Corsetti non lo richiama mezz’ora dopo per dirgli che quel prodotto serve a ricucire i tessuti e perciò contiene degli anabolizzanti. Doping. E’ lì che comincia l’assurdo limbo di Stefano: i giorni sfilano senza poter fare niente fino a quando, a settembre, esce la notizia ufficiale della positività.
Un ciclista è sempre un po’ in balìa di chi lo acclama, è il pubblico che decide, che ti dà il permesso di rimanere in alto o di essere solo un numero. Arrivano offese pesanti dai tifosi che non sanno niente di questa storia, che quando c’è di mezzo il doping preparano le forche senza sapere che le bestie da scacciare, molte volte, sono solo dentro di noi. Doparsi è un tradimento e dei tradimenti si ha paura. Una paura umana che a volte acceca. “Io non ho tradito nessuno” racconta Stefano. “Eppure mi sono arrivati tanti messaggi che mi insultavano, mi dicevano di tutto, che dovevo vergognarmi”.
Un baratro buio, neanche tanto improvviso, dopo che era arrivato in Liquigas con un campionato italiano alle spalle in una squadra come la Zalf Désirée Fior: un infortunio lo aveva già bloccato nel maggio 2012 ed era riuscito faticosamente a rialzarsi e a tornare alle corse. Ma qui non c’entrano le cadute, gli incidenti. C’entra il peso morale che la vicenda gli butta sulle spalle: la gente che l’aveva acclamato sulle strade dubita di lui, non ha più fiducia. Stefano racconta la sua verità ai giornalisti, qualcuno ci crede, qualcuno no. Perché la storia è talmente assurda che sembra la trama di un romanzo. Eppure i romanzi insegnano che la realtà non è poi così distante da quello che raccontano tra le loro pagine.
Stefano non si arrende. In bicicletta e anche nella vita è uno senza vie di mezzo, che non molla la presa facilmente. Soprattutto quando si tratta di dimostrare la sua buona fede. Chiede all’UCI le analisi e si scopre che la quantità di sostanza dopante riscontrata è davvero infinitesimale e il bollino che indica la presenza di doping nella crema è presente solo sul tubetto e non sulla confezione. Fatalità, quella notte il tubetto era arrotolato proprio dalla parte del bollino.
Una serie di sfortunati eventi, verrebbe da dire.
Sette lunghi mesi di silenzio sono trascorsi da quel giorno di settembre e la risposta di oggi dell’UCI è come una doccia gelata: quindici mesi di squalifica e il pagamento delle spese sostenute per le azioni e i procedimenti in merito a questa vicenda. Nonostante la sua dichiarazione consapevole di aver assunto per sbaglio quel farmaco, Stefano è stato trattato alla stregua di chi fa uso di cocaina e EPO per alterare le prestazioni. “Non ci si dopa con una pomata prescritta dal medico curante” spiega lui stesso nella sua memoria inviata all’UCI, “e venduta in qualsiasi farmacia, addirittura senza ricetta.”
E’ chiaro che quei 0, 7 miliardesimi di grammo riscontrati nelle sue urine al momento del controllo sono il frutto di una leggerezza. C’è qualcosa che i giornali, i medici, le persone stesse che seguono il ciclismo si dimenticano: i ciclisti sono ragazzi che crescono con il sogno bellissimo e terribile della bicicletta, fin da bambini imparano che la vita in sella è più dura di quella coi piedi per terra. Imparano i sacrifici, le rinunce e quando passano la barriera dei professionisti capiscono a volte a loro spese che niente è regalato, che oltre il ciclista pagato e che viaggia per il mondo facendo quello che gli piace, c’è un uomo che deve seguire le diete ferree per non pesare troppo sulla bici e deve piegare la schiena non solo sulla strada ma anche davanti alle prigioni del protocollo Adams. Tutto questo per seguire un sogno coltivato anche durante i giorni di pioggia. Forse Stefano se l’è sempre chiesto se ne valesse la pena e, anche dopo l’infortunio, si è risposto di sì. Si è risposto di sì anche in questi mesi logoranti, mentre continuava ad allenarsi ogni giorno e a inseguire quello spirito che lo ha fatto innamorare del ciclismo. Questo sport ha la sua stessa anima: ribelle, libera, fiera.
“Se e quando tornerò, non vorrò essere un numero” diceva convinto. “Il ciclismo per me è come una famiglia e le famiglie non sono fatte di numeri che contano di più o di meno. Quando tornerò, voglio alzare le braccia di nuovo, prendermi la mia rivincita.”
Ma adesso? Chi gli ridarà tutto questo? I sogni, la carriera, le vittorie. Cosa dirà l’UCI a tutti quelli che credono nella giustizia? E’ questa la vera battaglia al doping?
Pedalare gli ha insegnato a diventare grande, lo ha svezzato ai sogni ambiziosi. Nel limbo che gli era piombato addosso c’era ancora questo che lo faceva sentire salvo: non la bicicletta, non le corse ma la consapevolezza che quello stile di vita era proprio il suo, cucito addosso al suo essere. Gli è stato portato via tutto quanto, in un giorno, senza accorgersi. Per una pomata e una storia assurda. Come se una mattina ci svegliassimo e ci accorgessimo che la motivazione per la quale ci alziamo e viviamo è svanita.
Stefano che non si è mai arreso, ha dovuto alzare bandiera bianca di fronte a un sistema che aveva già deciso di tagliargli le gambe a venticinque anni. Ha accettato la squalifica e il pagamento dei danni non perché non ci fossero alternative, piuttosto perché l’alternativa aveva del ridicolo. Se non avesse firmato l’accettazione di questo provvedimento il suo dossier sarebbe stato inviato alla Federazione Ciclistica Italiana e si sarebbe svolto un processo all’esito del quale l’autorità avrebbe dovuto confermare i quindici mesi, altrimenti l’UCI sarebbe ricorsa al TAS di Losanna. Un cane, insomma, che non vuole mollare un osso sul quale si è accanito. Fino a che lo afferra per seppellirlo. Tutto questo a spese del “condannato” che avrebbe dovuto sostenere ancora controanalisi, perizie e nomine di legali pagando di tasca propria.
“Da tutto questo” scrive ancora Stefano all’UCI, “mi rimane una profonda ed irrisolvibile disillusione nei valori dell’onestà, della giustizia e dell’uguaglianza intesa nel senso di trattare situazioni eguali in modo uguale e situazioni diverse in maniera diversa.”
Sì, non è solo lui che si arrende, in questa vicenda. La giustizia getta la spugna. Il sistema antidoping, nell’affannosa ricerca della perfezione completa, rischia di diventare sempre più un carcere di massima sicurezza per innocenti da una parte e un parco divertimenti per chi inganna dall’altra. Parafrasando una pubblicità: “Senza umanità saremmo solo macchine.” E le macchine non sanno cos’è la fatica che è l’essenza del ciclismo. Non sanno cosa significa compilare un modulo alle sei di mattina e ammettere una leggerezza inconsapevole. Un sistema così non aiuterà il ciclismo a rialzarsi ma lo ricaccerà continuamente a bastonate nella fossa in cui l’avevano spinto.
Jack Kerouac diceva: “Non importa, bisogna andare”. Insegui ancora i tuoi sogni ogni giorno, Stefano. Al di là delle risposte e della dignità che ancora ti devono. Chi compila le carte non lo sa che questo sport è zingaro come te e ti vorrà di nuovo, se tu rivorrai lui. Ha la tua stessa anima e le anime uguali non si possono dividere. Né con la distanza, né con un tubetto schiacciato di pomata.