Pubblico il testo del mio intervento al workshop del TiltCamp «Questa è la mia casa. la casa dov’è? Per un’altra idea di cittadinanza», che si è tenuto lo scorso 3 settembre a Roseto degli Abruzzi. Nel discutere di cittadinanza il rischio è di trovarsi in mezzo a due fuochi: da un lato una presunta Realpolitik che pretenderebbe di affermare la logica schmidtiana amico/nemico come la regola fondamentale della convivenza tra gli uomini; dall’altro quello che i suoi detrattori bollano come ‘buonismo’, l’idea della fratellanza universale tra gli uomini che si scontrerebbe però con la dura realtà dei fatti. La scommessa è sottrarsi a questo falso dilemma, cercando di mostrare come l’idea della cittadinanza universale, o meglio, della cittadinanza cosmopolitica, sia auspicabile non solo sul piano morale, ma anche su quello empirico.
La cittadinanza – ossia la titolarità di diritti – è strettamente legata a uno Stato. Non è possibile pensare a una cittadinanza senza uno Stato che per un verso riconosca questi diritti e per l’altro adempia ai corrispondenti doveri per soddisfare quei diritti. La condizione di apolide è particolarmente dura proprio perché non c’è nessuno Stato a cui appellarsi per rivendicare i propri diritti. Nel secondo dopoguerra sono stati fatti dei tentativi per affermare e codificare alcuni diritti inalienabili che pertengono agli esseri umani in quanto tali, una sorta di abozzo di Stato universale ma sappiamo bene quanto è difficile vedere rispettati quei diritti prescindendo dalla volontà degli Stati nazionali. La scelta fondamentale che gli Stati si trovano a fare rispetto alla questione della cittadinanza è quella tra il principio dello ius sanguinis – si è cittadini dello Stato di cui sono cittadini i genitori – e quello dello ius soli – si è cittadini dello Stato in cui si nasce. Al di là delle considerazioni etiche, la scelta tra i due princìpi è una scelta dettata da precise ragioni storiche. Lo ius sanguinis caratterizza i paesi a forte emigrazione, che con questo principio tendono a «non perdere» cittadini, mantenendo con loro un forte legame. Lo ius soli invece è il principio adottato dai paesi a forte immigrazione, come gli Stati Uniti, che così mirano ad «acquisire» cittadini. Ora, lasciando da parte le considerazioni di carattere etico, e volendo fare un ragionamento in termini di Realpolitik, l’Italia si ritrova una legislazione sulla cittadinanza arretrata rispetto alla sua realtà storica: se nel dopoguerra la forte emigrazione di cittadini italiani giustificava la necessità di mantenere con gli italiani all’estero un forte legame, l’Italia è ormai da svariati anni un paese a forte immigrazione ed è quindi arrivato il momento di aggiornare il principio di cittadinanza allo ius soli. È ridicolo – oltre che drammatico sul piano personale – che un bambino nato in Italia, che non ha mai visto il paese di origine dei suoi genitori, che parla un perfetto italiano, se non addirittura il dialetto locale, che ha da sempre giocato fianco a fianco con i bimbi nati da genitori italiani, non goda pienamente di tutti i diritti riconosciuti a un cittadino italiano e, in particolare, non possa dare il suo contributo alla vita politica del paese in cui vive, con la drammatica conseguenza di creare dei veri e propri «stranieri in patria» e alimentando un senso di non appartenenza le cui conseguenze possono essere devastatanti. Agevolare l’acquisizione della cittadinanza è anche un baluardo contro i fondamentalismi: il soggetto della cittadinanza è infatti l’indidividuo, e non le comunità di appartenenza, e un individuo pienamente riconosciuto come cittadino è meno portato a rifugiarsi nella protezione della comunità di provenienza. Ecco perché, la partecipazione alla vita politica del paese deve avvenire sulla base di diritti individuali e non su basi etniche, come invece, per esempio, l’elezione di rappresentanti stranieri in alcuni consigli comunali, come quello di Roma. La purezza del sangue non garantisce dalla follia fondamentalista, come l’atroce strage norvegese, pepetrata da un norvegese doc, insegna. Una più attenta e lungimirante politica della cittadinanza, che miri ad agevolare il sentimento di appartenenza in particolare nelle seconde generazioni di immigrati, piuttosto che alimentare in loro il senso di rifiuto e di apolidia, può aiutare a costruire una società più equilibrata e dunque più sicura per tutti.