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Tony Scott è un intrattenitore di lusso, ha una certa abilità tecnica, un stile riconoscibile. Se la sua conoscenza della MdP fosse l’unico metro di valutazione delle pellicole, ci troveremmo di fronte ad un discreto director, identificabile, come detto, dalla tipologia di genere a cui maggiormente si avvicina e da una certa sofisticazione tecnologica che, partendo da tecniche ovvie di riprese come il ralenti (slow-motion) o le accelerate, riesce a creare un mondo visivo perfetto per l’action, dai colori saturi, dinamico nella pelle delle inquadrature, denso nell’alimentare tensione. Eppure, “Pelham 1 2 3- Ostaggi in metropolitana” è un blockbuster estremamente deludente, nonostante premesse ottime. E’ una pellicola la cui “pizza” gira facilmente, che colpisce lo spettatore con molte furbate, stuzzicando ricordi e ricordi di film sempre uguali a sé stessi. E l’omogeneità, o per meglio, dire l’assuefazione all’action di per sé non è sempre negativa, soprattutto quando non si tratta di un’ action testosteronica gonfiata da steroidi e recitata da cani, tra latrati e mutismi. “Pelham” fa parte di un’altra categoria, sottile, che gioca sulla psicologia. Una psicologia di negoziazione. Anche se inflazionato, si tratta di un tema profondamente legato al nostro periodo storico ed alle paure umane. Il problema è altrove e va rinvenuto non nel soggetto, novella che era stata immortalata con tutta altra carica negli anni ’70, quanto nell’adattamento. La sceneggiatura è agghiacciante e la firma di Brian Helgeland è molto diversa da illustri lavori precedenti, irriconoscibile. La scena del contatto marito-negoziatore-broker-psicologo (Denzel Washington), semplice lavoratore pubblico, declassato dopo tangente, e moglie, prima che vi sia una discesa nel mondo suburbano da parte dell’uomo di colore per pagare il riscatto in modo da salvare gli ostaggi sul treno, è qualcosa che tocca il fondo della cinematografia nello scambio di battute. “Quando torni, portami due litri di latte”, sovviene lei, tra l’orgoglio e la paura, “te ne porto uno”, risponde, con voce asettica e perentoria, lui. A metà strada tra il patetico, il comico involontario e il comico volontario (che in un genere come questo è ridicolo). E la caratterizzazione dei personaggi è così vuota che non si vede una naturale via d’uscita nella comprensione degli atteggiamenti e la conclusione è tanto scontata quanto stucchevole, carica di un’idiozia impossibile da sostenere. Se Denzel fa il solito compitino, appena sufficiente, confermandosi una star più di nome che di fatto (con Tony Scott che ha puntato troppo su di lui e sulla sua fama di bravo attore), John Travolta è sovraccarico di trovate che non hanno a che vedere con la naturalezza e la veridicità. In questo caso, l’esagerazione è anche di interpretazione, non solo di scrittura. Di contorno, il “mafioso” Gandolfini che non ne trova una giusta dopo “I Soprano” ed il bravissimo John Turturro, irresistibile in quasi tutti i ruoli. Per capire il livello del film, mi si concedano due anticipazioni: un bambino assiste imperterrito all’esecuzione di due passeggeri, mostrando una lucidità e una forza che non hanno alcuna verosimiglianza con la realtà, un uomo, poi, si blocca nella minzione e, una volta scampato il pericolo, si prepara a liberarsi, affermando: “Adesso posso pisciare”…Un film action-thriller no-sense. Peccato, soprattutto perchè la messa in scena di una New York sotterranea è notevole.
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