L’aveva annunciato Riek Machar, leader dei ribelli sudsudanesi, che avrebbe conquistato i principali distretti petroliferi, situati nella parte settentrionale del paese, per poi marciare su Juba e rovesciare il presidente Salva Kiir; i metodi utilizzati sono però degni di quelli applicati nella guerra in ex Jugoslavia.
A dirlo questa volta non sono i comunicati del governo del Sud Sudan ma gli stessi dirigenti della missione delle Nazioni Unite nel paese, l’Unmiss (United Nations Mission in the Republic of South Sudan).
Secondo l’Onu, in pochi giorni, centinaia di persone sono state uccise dai miliziani di Machar nella cittadina di Bentiu, meno di 8000 anime vicino al confine con il Sudan, e molte altre nelle regioni circostanti; un’area questa dove sono presenti importanti siti per l’estrazione del greggio.
Secondo le informazioni fornite dalle Nazioni Unite i ribelli si sarebbero recati dove i civili si erano rifugiati per sfuggire alla morte, così almeno 200 sono state uccise a sangue freddo nella moschea di Bentiu, mentre moltissimi altri, che si erano rifugiati nelle chiese ed anche in edifici abbandonati del World Food Programme, hanno perso la vita allo stesso modo.
In tutta la parte settentrionale della giovane repubblica sono stati compiuti massacri ai danni della popolazione civile, nell’ottica di una vera e propria pulizia etnica, non a sfondo religioso come avviene in alcune regioni del vicino Sudan, bensì su base etnica, in cui i Nuer, il gruppo di Machar, puntano a liberarsi dei Dinka, etnia di Salva Kiir.
Già a pochi giorni dal fallito colpo di stato dello scorso dicembre, durante il quale le forze golpiste (la parte di esercito sudsudanese rimasta fedele all’ex vicepresidente Machar) furono respinte fuori dalla capitale dall’esercito governativo, le divergenze latenti tra i due gruppi hanno cominciato ad accentuarsi, portando ai primi episodi di violenza.
Le truppe ribelli hanno quindi ripiegato, prendendo il controllo di altre importanti città del paese, come Bor, dove una base delle Nazioni Unite è stata assaltata da uomini armati che hanno aperto il fuoco, uccidendo 58 persone.
Il dominio sugli stati settentrionali è però l’obbiettivo principale di Machar: controllare i pozzi petroliferi significa tenere in mano la quasi totalità dell’economia sudsudanese, una delle più fragili al mondo, forse quella più disastrata del globo, dipendente per il 98% dalla vendita del greggio.
Di fronte al precipitare della situazione anche l’Onu ha parlato di “crimini di guerra”, ma questa presa di coscienza non si tramuterà automaticamente una garanzia di protezione per le popolazioni minacciate; già molte volte infatti la comunità internazionale contro i machete ed i mitra dei guerriglieri hanno schierato solo un mare di parole, lasciando che si compissero genocidi come quello del Ruanda o le atrocità viste in Bosnia, utili per poi dire “facciamo che non accada più”.
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Sud Sudan. Tra crimini di guerra e pulizia etnica
Creato il 21 aprile 2014 da Giacomo Dolzani @giacomodolzaniPotrebbero interessarti anche :
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