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Tokio sembra essere in preda ad un’epidemia di suicidi: prima 54 adolescenti si gettano sotto un treno, poi un’infermiera si lancia nel vuoto e degli studenti emulano il gesto dal balcone della scuola. Un poliziotto indaga sulla questione scoprendo verità inquietanti…
In breve. Diffidate da qualsiasi recensione troppo entusiastica perchè il film, certamente non brutto di suo, non riesce a cogliere nel segno. Troppi accenni, troppe cose sconnesse, un’eccessiva smania di stupire e delle interpretazioni non esattamente di livello riescono a far affondare un’idea che forse, in mano ad altre menti, sarebbe diventata decisamente accattivante.
Diretto nel 2002 dal visionario Shion Sono (già noto per il disturbante Strange circus), Suicide Club (noto anche come “Suicide Circle“) è un film riuscito solo a metà: se da un lato scatena suggestioni impulsive (la paura del suicidio è senza dubbio uno dei tabù più colossali della società moderna), e nonostante riesca a divagare con una certa coerenza sul tema, oltre che con un sentito gusto per il grottesco e l’esagerazione, ne risulta una pellicola ampiamente sopravvalutata e sopravvalutabile. Non male il livello di splatter, per quanto molte scene siano ai limiti dell’artigianalità più grossolana (quasi a livello dei b-movie horror italiani anni 80); decisamente più suggestive molte delle scene topiche, tra cui il suicidio in metropolitana che vediamo all’inizio, e le morti più improbabili che rivaleggiano con quelle viste in “Final Destination“. La parola “capolavoro”, tanto abusata in queste circostanze, ci deve piuttosto ricordare che non affatto basta scomodare temi forti e coniugarli con mano esperta per essere considerati cineasti di livello.
Questo difetto, a mio avviso, si concretizza per almeno due ragioni: da un lato non si capisce quasi per nulla dove il regista sia voluto andare a parare (cosa piuttosto chiara, invece, nella metafora circense del succitato film), dall’altro la trama appare piuttosto sconnessa, caotica, in certi passaggi si fatica a capire cosa stia succedendo – il finale è visionario o reale? Nonostante alcune trovate decisamente crudeli quanto azzeccate – la cintura di pelle umana è destinata a scolpirsi nella memoria di tutti gli spettatori – vi sono troppi momenti di sottovuoto spinto che distraggono l’attenzione del pubblico, e non riescono a mio parere a coinvolgerlo come si dovrebbe. Eppure le idee non mancano, del resto il tema era parecchio ghiotto: il focus è posto sull’alienazione dell’uomo moderno, svilito da mille giocattoli futili e disumanizzato al punto di sentirsi “solo tra la folla” come unica, autentica, condizione di esistenza. Una solitudine lacerante che porta a voler terminare la propria vita anche senza una reale ragione, ma semplicemente perchè la società lo imporrebbe con i suoi ritmi pressanti ed autodistruttivi. Molti altri registi hanno lavorato in questa direzione, e pur sviluppando trame spesso ai limiti dell’astrattismo (penso a Tetsuo, ma anche a Izo ed ovviamente a Der Todesking) sono riusciti a cogliere nel segno: Sono, al contrario, concretizza diversi incubi metropolitani moderni in perfetta penombra, e mostra teenager incoscenti propensi a trovarsi una fidanzata con la stessa tranquillità con cui commetterebbero un suicidio di massa. Del resto non era male lasciare un bel punto interrogativo sulla natura dell’eventuale setta che sembra aver condizionato le menti dei giovani mediante internet: ma i particolari del puzzle appaiono distanti tra loro, troppo per parlare di un film davvero memorabile.