In molti sostengono che le bestialità di Calderoli si commentino da sole: sembra che non vi sia bisogno di rifletterci, di spenderci sopra del fiato. E invece io ce lo spendo. Perché noto con rammarico che coloro che stigmatizzano le dichiarazioni di quest'imbecille nel senso che imbelle lo fanno sulla base di argomentazioni sciapissime. Del tipo "i neri sono come noi, solo di un colore diverso". Oppure: "che maleducato!". Oppure: "nella sua posizione, che vergogna!". Tutte cose verissime: a differenza dei colori le razze umane non esistono, Calderoli probabilmente è cresciuto nella famiglia Sporcelli (quelli di Roald Dahl), e soprattutto questo sfortunato individuo non sarebbe degno di alcuna carica istituzionale in nessun paese del mondo (Musulmania inclusa;). Tutto vero, per carità. Ma nessuno che sia mai in grado di andare oltre il comune buon senso, oltre i propri "valori", per capire i veri motivi per cui paragonare un Ministro della Repubblica originario del Congo a un orango è gravissimo.
Dietro l'ignoranza, alla maleducazione e alla mancanza di senso istituzionale di Calderoli vi è un antichissimo problema di comprensione relativo a tre concetti complessi che la Storia ha correlato, concetti come nazione, stato e cittadinanza. Proviamo a capirci qualcosa con uno strumento d'avanguardia, cui Calderoli ha sicuramente avuto difficile accesso durante l'infanzia: il dizionario. Da Treccani.it (Roberto con 2 c e tutto attaccato, non "tre cani", che se no gugol non lo trova):
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Nazione Il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla sua realizzazione in unità politica.
Stato Ente dotato di potestà territoriale, che esercita tale potestà a titolo originario, in modo stabile ed effettivo e in piena indipendenza da altri enti.
Cittadinanza Condizione di appartenenza di un individuo a uno Stato, con i diritti e i doveri che tale relazione comporta; tra i primi, vanno annoverati in particolare i diritti politici, ovvero il diritto di voto e la possibilità di ricoprire pubblici uffici; tra i secondi, il dovere di fedeltà e l’obbligo di difendere lo Stato, prestando il servizio militare, nei limiti e modi stabiliti dalla legge.
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Ora, non voglio certo avventurarmi in spiegoni filosofico-giuridici che non sono assolutamente in grado di imbastire (su questi tre concetti si può ragionare e discutere tutta la vita). Ma a partire da queste tre definizioni – migliorabili, ma che hanno il pregio di venire dalla stessa fonte – si capiscono certamente tre cose:
1) La nazione è qualcosa che dipende dalla coscienza identitaria del gruppo che se la intesta. Proprio per questo, non è detto che questa autopercezione abbia un riconoscimento politico. Non va certo spiegato a un leghista, che, per quanto si tratti di un'operazione becera (no, non tutte le idee hanno la stessa dignità storica), ha comunque creato un mondo immaginario che non corrisponde ad alcuna realtà giuridico-territoriale: la "Padania".
2) Lo stato è un ente cui una collettività riconosce il monopolio della forza su un dato territorio. Conseguentemente, non ha nulla a che vedere con la nazione. Il fatto che l'unità amministrativa Stato, per giustificare il proprio monopolio accentratore, si sia appoggiata in età moderna al concetto di nazione, è semplicemente un fatto storico. Fu una precisa scelta politica, utilizzata con successo dai monarchi francesi, dai rivoluzionari americani, dai vari eroi del Risorgimento italiano, dal presidente Wilson all'indomani della Prima Guerra Mondiale – fu lui a enunciare il principio di autodeterminazione dei popoli: qualsiasi comunità umana che aderisca a dei valori di fondo, che si autopercepisca come unità (ovvero qualsiasi Nazione), ha il diritto di organizzarsi politicamente come crede (ossia di creare uno Stato).
3) La cittadinanza è legata allo Stato: è dunque una condizione politica che genera un reciproco rapporto di diritto-dovere tra l'individuo (che gode in ogni caso, in quanto essere umano, dei diritti universali) e l'entità Stato (che fornisce, in quanto organizzazione, diritti specifici ai suoi membri – diritti escludenti, certo, perché esclusivi, per lo meno fino a quando non avremo uno Stato Mondiale – #tranqulliragazzichecipensaCasaleggio). Certamente Hitler vomiterebbe a leggere questa definizione: nel Mein Kampf egli inveisce a più riprese contro la "concezione burocratica" della cittadinanza (non è che se dai a un negro un pezzo di carta quello ti diventa tedesco!). Ma persino un nazista dovrà convenire sul fatto che l'idea di legare i diritti di un individuo politico alla razza bilogica (concetto fumosissimo rigettato dalla comunità scientifica) ha, fino ad ora, prodotto risultati sistemici inferiori alla concezione burocratica della cittadinanza. Diciamo, applicando un po' di determinismo e cercando di non sconfinare nel campo dei "valori morali", che la Storia ha valutato l'opzione: e l'ha scartata. Speriamo che la Musica, il Cinema e la Chiesa facciano lo stesso con il metal, gli horror, e il Diavolo: al più presto.
Basta dunque una lezioncina di educazione civica di terza elementare per capire che la Kyenge è italiana. E non per tolleranza (parola orrenda), né per buon cuore, né perché "siamo una società aperta". No: basta il vocabolario. La Kyenge è italiana per nazione e per cittadinanza. Per nazione perché, quand'anche le sue origini siano congolesi, quand'anche non appartenesse, nel momento in cui è uscita dalla vagina di sua madre, alla nazione italiana, ella vi è approdata: essendo il concetto di nazione un concetto filosofico, valoriale, legato all'autopercezione di una comunità, questo concetto è per definizone APERTO: le nazioni sono luoghi aperti, a tutti coloro che sentano in cuor loro di aderire alla storia, ai valori, ai progetti di una stessa comunità di destino. Chi nega questo nega, ad esempio, che gli Stati Uniti siano una nazione. Fate pure, ma non vi basterà il vocabolario per sostenerlo. Secondo, la Kyenge è italiana per cittadinanza: dal momento che la cittadinanza è un contratto che lega un individuo ad una entità politico-amministrativa, nessuno può essere aprioristicamente escluso dall'acquisizione della stessa: perché lo Stato (inteso come realtà storica che si è definita nel tempo e che, sempre storicamente, non è per forza eterna) chiede due sole cose ai suoi cittadini in cambio dei suoi diritti: il rispetto dei suoi doveri e la difesa, a costo della vita, della sua integrità.
Ecco che veniamo al perché Calderoli non è un italiano. Calderoli non appartiene alla nazione italiana perché non condivide assieme agli altri italiani la coscienza identitaria, perché immagina un mondo altro che, se nascesse per davvero, mirerebbe a combattere l'entità culturale preesistente. Ma soprattutto, Calderoli non è un cittadino italiano perché pone se stesso al di fuori dei valori Costituzionali che fondano e legittimano lo Stato di fronte ai suoi cittadini. L'Articolo tre della Costituzione Italiana recita:
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Lo Stato italiano, caro Calderoli, se ne frega che la Kyenge è nata in Congo, che è nera non lo vede neanche. Viceversa non ammette il razzismo. E non stabilisce questo in nome del buonismo con cui sciaguratamente difendiamo la Kyenge (rivelando una preoccupante paura di "fare la figura di" Calderoli), né di vaghi principi etico-solidali (quelli che gli adulti insegnano ai bambini a volte dopo averli dimenticati). Lo fa nel nome del sangue della storia europea e italiana: è quel sangue, quell'esperienza, a rendere la tua figura politica retrograda, anacronistica, dannosa. La direzione che ci indica la Costituzione è invece quella giusta, perché asseconda le vite degli uomini sulla Terra, e ci invita a guardare al futuro. Gli inglesi bevono il tè perché sono stati in India; lo "zucchero", quello che metti nel tè indiano, lo chiedi al bar utilizzando una parola araba; i veneti e i pugliesi che si incontrarono nelle trincee della Prima Guerra Mondiale per combattere per la "nazione italiana" non si capivano tra loro e non capivano gli ordini (in italiano) del comandante, gli italiani che sono arrivati in America a inizio Novecento puzzavano, come gli albanesi degli anni Novanta su cui la Lega ha costruito tanti successi elettorali. La verità è complessa, il razzismo una favoletta semplificata per bambini scemi che non vogliono crescere. Ci vuole tempo per percepirsi nazione, ci vuole tempo per costruire un grande Stato, ci vuole tempo far sì che questi Stati convivano in pace, ci vuole tempo per migliorare gli uomini e il mondo. E tu ce ne stai facendo perdere un sacco. Sei vecchio, vai via. Lasciaci in pace, te e le tue stronzate.
Paradossalmente, per guardare avanti, il federalismo, in Europa come in Nord America, sarebbe la strada giusta. Ma voi leghisti avete rovinato anche questa parola. Qui sotto, caro Roberto, ti digito qualche paginetta di due federalisti veri. Spero siano utili a te (che finché non sei morto puoi ancora migliorare) e agli argomenti dei miei cinque lettori, che possano nutrire con un po' di qualità teorica la loro indignazione nei tuoi confronti:
COSTANTIN FRANTZ (1817-1891), L'inconsistenza del principio di nazionalità (1879)
«Il principio di nazionalità ha ottenebrato le menti eccitando le passioni. In un certo senso lo Stato è un'entità astratta, nei cui affari ed interessi la grande massa ha scarsa competenza e del quale, dappertutto, si occupa solo una parte relativamente piccola della popolazione. Al contrario il principio di nazionalità agisce quasi colla forza di un istinto naturale. Infatti ognuno si sente direttamente membro della propria nazione, e per questo non sono necessarie particolari conoscenze o riflessioni, perché la sola comunità di lingua è sufficiente a produrre questo effetto. Se in più si predica espressamente alla gente che il compito più importante e più santo è quello di mettere in valore la propria nazionalità, diventa abbastanza facile fanatizzarla in modo da far gettare gli uni sugli altri come bestie. Sì, proprio come bestie, perché la proclamazione del principio di nazionalità costituisce in un certo senso una rinuncia alla ragione, e pone gli uomini sullo stesso piano delle bestie. Infatti tutto si riduce al fatto che ci si comporta come se le diverse nazionalità attualmente esistenti fossero dei tipi fissi e stabiliti dalla natura, come le diverse famiglie di animali. I Tedeschi, per esempio, e i Francesi, o in generale i Germani e i Latini, tenderebbero a comportarsi gli uni verso gli altri press'a poco come cani e gatti, tra i quali esiste una antipatia istintiva, e così avverrebbe colle altre nazionalità. Dati questi presupposti, la pace sarebbe possibile soltanto se ogni nazionalità avesse il suo particolare territorio, e chiuso tutt'intorno da una muraglia cinese, dove non esistano già confini naturali sicuri. Ma nulla è così indiscutibilmente certo quanto il fatto che questi tipi nazionali fissati una volta per tutte sono una pura chimera, perché le nazionalità sono nate nel corso della storia. Inoltre, esse non sono nate semplicemente perché delle famiglie nel corso delle generazioni sarebbero creciute fino a divenire popoli, bensì a seguito di continue mescolanze con elementi estranei [...]. Questa spinta forzata alla messa in valore del principio di nazionalità non si accorda affatto colle reali condizioni della nostra epoca, come si rileva con particolare evidenza nel campo del commercio e dei movimenti di persone. Mentre dal principio di nazionalità, portato coerentemente alle sue conseguenze, deriverebbe che le diverse nazioni, per sviluppare le loro particolari potenzialità, dovrebbero segregarsi il più possibile le une dalle altre, il dato di fatto è che, grazie al gigantesco sviluppo di tutti i mezzi di comunicazione, esse si avvicinano sempre più tra loro. Il traffico di persone fa sì che esse si conoscano sempre meglio, col commercio i loro interessi materiali si intrecciano, colla stampa le idee circolano come mai prima era avvenuto. Non ci si impegna forse con la massima diligenza ad incrementare i traffici internazionali con trattati telegrafici, postali, commerciali e monetari, e non si sta forse nello stesso tempo progressivamente sviluppando un diritto privato internazionale? Che significa ciò se non che con una mano si vorrebbero erigere barriere nazionali che con l'altra continuamente si distruggono? Curiosa contraddizione!».
LUIGI EINAUDI, I problemi economici della federazione europea (1944)
«La federazione ha bensì un fondamento economico. Essa è il risultato necessario delle moderne condizioni di vita le quali hanno unificato il mondo dal punto di vista economico, trasformandolo in un unico mercato. Spiritualmente, essa mira però alla meta opposta; che è quella di liberare l'uomo dalla necessità di difendere a mano armata il proprio piccolo territorio contro i pericoli di aggressioni nemiche ed a lui, così liberato, consente di aspirare a prendere parte, utilizzando al massimo le risorse del proprio piccolo territorio, alla vita universale. Liberazione dalla materia e non asservimento ad essa: questa è la ragion d'essere della federazione; epperciò anche è sua ragion d'essere non la mortificazione ma la esaltazione dello spirito».
Ora che hai letto questi due giganti, vai a sotterrarti, Calderoli. Nel fango, assieme ai tuoi amici ippopotami. Sempre che ti accettino. Prega che, al di là delle evidenti somiglianze fisiche, non siano come te.
E voi altri, che difendete la Kyenge compiaciuti della vostra cultura che vi rende "diversi" da Calderoli, smettetela di sentirvi migliori, il vostro buonismo fatto in casa non serve a nulla. Qui c'è da capire dove vogliamo andare, noi occidentali e il mondo. Da capirlo e da lavorarci. Si prega di rimboccarci le maniche.