di Michele Marsonet. Prendendo spunto dalla riedizione di un noto libro di Norberto Bobbio uscito vent’anni fa, “Destra e Sinistra”, Matteo Renzi ha pubblicato su “Repubblica” del 23 febbraio un lungo articolo intitolato “Innovazione e uguaglianza: la mia idea di destra e sinistra nell’Europa della crisi”. Sarebbe ingeneroso notare subito che, probabilmente, il pezzo non l’ha scritto lui ma qualcun altro. In fondo è così per tutti i politici che contano: dispongono di uno “think tank” di intellettuali (in stile USA) e di “ghost writers” che scrivono per loro articoli e discorsi. Nulla di male in questo, tanto più che nel pezzo appena citato vengono avanzate tesi che il presidente del consiglio incaricato ha sempre difeso in pubblico da quando è assurto agli onori – e oneri – della scena politica nazionale.
Il segretario del PD non dice insomma cose nuove e reitera quello che è il suo mantra preferito. La sinistra, se vuole davvero vincere le elezioni e governare da sola o con alleati più “affini” rispetto ai partiti attualmente in coalizione, non può arroccarsi su posizioni identitarie che non hanno oggi un senso compiuto per la maggioranza dei cittadini. Deve, invece, allargare il suo perimetro per conquistare voti che non sono automaticamente “di sinistra” e, senza opera di convinzione, andrebbero altrove o finirebbero nella grande massa degli astenuti. E queste cose, per l’appunto, Renzi le ha già dette tante volte, sia nelle ultime primarie sia ai tempi della sua contrapposizione con Bersani. “A me interessa vincere – ripeteva in continuazione agli esponenti più tradizionalisti del PD – e se si continua così non vinceremo”.
Però è interessante rilevare che dall’articolo emerge un disaccordo non da poco con Bobbio. Il filosofo torinese fondava infatti la sua analisi su una dicotomia assai antica: eguaglianza vs diseguaglianza. Questo era il suo spartiacque. Chi si sente di sinistra attribuisce un peso fondamentale a ciò che rende gli esseri umani eguali tra loro, cercando quindi di diminuire le sperequazioni sociali (di reddito, ma non solo). Coloro che invece si identificano con la destra ritengono che le diseguaglianze siano inevitabili proprio perché gli uomini non sono tutti eguali, e non ne auspicano affatto la soppressione.
Nell’articolo prevale la tesi che la dicotomia di cui sopra sia entro certi limiti ancora valida, ma non più sufficiente. Deve necessariamente essere affiancata da – e potenziata con – una seconda coppia di termini: conservazione vs innovazione. Non a caso il politico fiorentino ha sempre accusato la sinistra tradizionale di essere in fondo conservatrice, contraddicendo l’opinione comune che abbina “sinistra” da un lato e “progresso” dall’altro. Leggiamo infatti: “Tiene ancora, dunque, lo schema basato sull’eguaglianza come stella polare della sinistra? In una società sempre più individualizzata, sotto la spinta anche delle nuove tecnologie, dei social network, delle reti che connettono ma anche atomizzano, creando e distruggendo comunità e identità?”.
E qui si arriva al punto, giacché nel pezzo viene espressa senza remore l’opinione che anche tra i cosiddetti progressisti vadano recuperati concetti quali “merito” e “ambizione”. Un’ottica insomma nettamente antisindacale, almeno se per sindacato intendiamo quello italiano. Ma, a ben guardare, non è neppure così. Uno degli ispiratori – forse il principale – di Renzi è Tony Blair. Ebbene, si rammenterà che non solo l’ex leader laburista britannico sosteneva tesi del tutto analoghe, ma anche che, per arrivare al governo, dovette spezzare l’egemonia che le Trade Unions esercitavano all’interno del Labour Party. Fu un’operazione complessa e Blair riuscì a compierla. Ci riuscirà Renzi? E’ un interrogativo cui per ora non si può rispondere in modo certo.
Altrettanto interessante notare l’evidente nostalgia per il periodo dell’Ulivo, cioé del “progetto di Romano Prodi di abbattere gli steccati che separavano gli eredi del Partito comunista da quelli della Democrazia Cristiana, di una forza che accogliesse istanze liberaldemocratiche, ambientaliste, in una nuova unità, una nuova cultura politica” da definire semplicemente “democratica”. E allora si capisce ancor meglio la grande irritazione renziana quando proprio i franchi tiratori del PD impedirono al fondatore dell’Ulivo di salire al Quirinale. Sicuramente con lui Renzi si sarebbe sentito più in sintonia che con il vecchio “socialdemocratico” del PCI Giorgio Napolitano.
La morale da trarre? In realtà ce n’è più d’una. Innanzitutto anche in Italia la cultura politica cambia, sia pure lentamente. Il PD che vuole il neosegretario assomiglia non solo al Labour di Blair, ma anche al partito democratico americano che contende ai repubblicani l’area di centro perché sa che solo così può vincere. Le identità “forti” in politica contano sempre meno. Fanno magari notizia nei mass media grazie agli intellettuali militanti, nelle urne è tutt’altra faccenda. La “vaghezza” di Blair, Clinton e altri punti di riferimento renziani è considerata virtù e non vizio (e questo, in fondo, l’aveva già colto Walter Veltroni). Si tratta ora di capire come – e se – Matteo Renzi tradurrà nella pratica le indicazioni di base fornite in un articolo che assomiglia tanto a un minimanifesto.
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