Non è mai male ricordare a se stessi, agli altri, l’importanza dell’editing.
Lo faccio dopo aver letto l’articolo pubblicato sulla versione online de “Il Sole 24 Ore”, qualche giorno fa. Perché non è raro trovare giudizi trancianti a proposito di questi professionisti.
Secondo alcuni, chi ricorre a essi non sa scrivere. Si tratta di una sciocchezza.
Dostoevskji, è sempre stato impeccabile nella sua scrittura? “Sì” è la risposta sbagliata, poiché noi lo leggiamo attraverso una traduzione; e questa tende a modificare, vale a dire migliorare, l’originale. Benché si tratti di un traduttore, costui ha una preparazione, una sensibilità che lo porta naturalmente a intervenire sul testo.
No, non è un affronto. È editing. Non dichiarato, magari pure negato; di quello si tratta, però.
È innegabile come certi passaggi nelle opere dello scrittore russo, siano superflui; altri paiono un motore che gira a vuoto.
Alexandre Dumas veniva pagato a riga, quindi “allungava il brodo”, e si sente eccome.
A scuola, incappavo in scritti di poeti e autori che contenevano “licenze poetiche”. Alcune lo erano davvero; eppure niente mi ha mai tolto dalla testa che fossero errori.
Nel romanzo “La saggezza del mare” lo scrittore Björn Larsson riferisce di un suo amico che conosce a memoria le opere di Samuel Beckett. Nel romanzo “Molloy”, è scritto che il protagonista “si sedette sulla panchina esattamente come Walter”. Chi sia costui non si sa, poiché non compare in nessun’altra parte del romanzo. Eppure parliamo di un premio Nobel per la letteratura; ma una svista capita eccome.
Ci fosse stato un editor, questo insignificante scivolone non ci sarebbe stato; e forse se ne sarebbero evitati altri (ammesso che ce ne siano altri!).
Beckett non è meno “Nobel” per quella svista. Non si è meno scrittori solo perché il proprio lavoro è stato passato al vaglio da un editor.