La sanguinosa guerra civile in Siria che ha causato- secondo i rapporti dell’ONU- più di 90.000 morti dall’inizio della crisi nel marzo 2011 e 1,5 milioni di profughi siriani nei paesi limitrofi, si è inasprita dopo la presunta strage lealista con missili a gas nervino a Goutha, il 21 agosto scorso.
Lo status quo in Siria
Secondo quanto hanno dichiarato i Comitati locali di coordinamento siriani, la regione periferica a sud-est di Damasco è stata presumibilmente attaccata con utilizzo di armi chimiche dalle forze governative assadiane il 21 agosto scorso. Medici senza frontiere ha contato 355 morti e migliaia di feriti (The Guardian). Secondo le testimonianze rilasciate dai medici della zona e degli attivisti ribelli, il numero dei morti sarebbe molto più elevato: dai 500 ai 1300 (Reuters). Secondo l’Ufficio Stampa di Damasco, tra le zone maggiormente colpite: Hammoruriya, Kfar Batna, Saqba, Douma, Moudamiya, Erbin.
I medici intervistati a seguito del presunto attacco hanno ipotizzato l’utilizzo di gas serin, un gas nervino classificato come arma chimica di distruzione di massa. Video e foto amatoriali sono apparse nel corso dell’ultima settimana sul web, mostrando immagini delle presunte vittime con pupille ristrette, corpi pallidi, coma, schiuma alla bocca. Il ministro dell’informazione siriano Omran al-Zoubi ha immediatamente smentito le accuse, dichiarandole al contempo illogiche, prefabbricate e infondate. (Reuters). I funzionari del presidente Bashar al-Assad hanno dichiarato di non aver mai utilizzato armi chimiche e gas letali ai danni dei civili, rimbalzando la palla bollente della responsabilità dell’attacco sui ribelli.
Dopo la conseguente mobilitazione della comunità internazionale e il lasciapassare del governo Assad sull’inchiesta degli ispettori delle Nazioni Unite a Damasco, è seguita il 25 agosto la visita dell’alto rappresentante ONU per il disarmo, Angela Kane. Il team dell’ONU, guidato dal professor Aake Sellstrom, è stato incaricato di indagare sulle accuse di uso di armi chimiche nella provincia di Damasco. Gli ispettori hanno raggiunto uno dei siti del presunto attacco, raccolto campioni e interrogato i testimoni. Il dottor Abu Akram, che gestisce un ospedale improvvisato a Mua’adamiyat Al-Sham, ha riferito a un giornalista di The Guardian che l’arrivo degli ispettori è stato ritardato di quattro ore a causa di un attacco sferrato al loro convoglio e di aver visto fori di proiettili su un veicolo delle Nazioni Unite. Delle vittime civili intervistate dalla commissione, circa 500 sono in condizioni critiche e 20 in terapia intensiva, secondo la testimonianza rilasciata da Akram a The Guardian.
Il 27 agosto, nell’intervista del presidente Assad rilasciata alla testata russa Izvetsia, il presidente siriano fa due precisazioni per motivare l’infondatezza delle accuse a carico del suo governo. La prima: “Come può il governo utilizzare armi chimiche, o qualsiasi altra arma di distruzione di massa in una zona dove sono dispiegate le sue stesse truppe? Questo è un nonsense“. E la seconda, campanello d’allarme per la comunità internazionale e avvertimento sul’ipotesi di un intervento militare in Siria: “agli Stati Uniti spetterebbe l’ennesimo fallimento, come in tutte le guerre che ha scatenato precedentemente, a partire da quella in Vietnam fino ai giorni nostri“.
La risposta della comunità internazionale
Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon chiede un’azione urgente. Così commenta da Seul, il 27 agosto, sulla situazione in Siria: “Non possiamo più permetterci ritardi. Abbiamo visto tutti le immagini raccapriccianti sui nostri schermi televisivi e attraverso i social media. Questo è stato chiaramente un incidente grave e terribile. Siamo determinati ad adempiere al nostro mandato e a rispondere a domande profondamente inquietanti. L’uso di armi chimiche da parte di chiunque in qualsiasi circostanza è una grave violazione del diritto internazionale ed un crimine oltraggioso. Non possiamo permettere l’impunità per quello che costituisce un grave crimine contro l’umanità“. Nel frattempo, le Nazioni Unite hanno cancellato la visita nelle zone colpite dall’attacco martedì 27 agosto per motivi di sicurezza: la squadra di ispettori sarebbe finita sotto il mirino dei cecchini siriani.
Il segretario di stato statunitense John Kerry dichiara in un comunicato ufficiale del 26 agosto: “Quello che abbiamo visto in Siria la settimana scorsa dovrebbe scuotere la coscienza del mondo. Sfida qualsiasi codice di moralità. Permettetemi di essere chiaro. Il massacro indiscriminato di civili, l’uccisione di donne e bambini e passanti innocenti con l’utilizzo di armi chimiche è una oscenità morale. Alla luce di qualsiasi standard, è imperdonabile. E nonostante scuse ed equivoci utilizzate da alcuni, è innegabile“.
Non vi è tuttavia, alcuna prospettiva per un’ipotesi di mandato sotto l’egida ONU, data l’opposizione di due dei membri permanenti (e dunque veto-power) in seno al Consiglio di Sicurezza: Cina e Russia.
La risposta ufficiale della Cina, come cautamente formulata dal ministro degli esteri Wang Yi è stata di chiara condanna circa l’utilizzo di armi chimiche. Inoltre, il ministro cinese invita l’ONU ad aprire un’indagine indipendente, obiettiva, equa e professionale, per scoprire al più presto cosa sia realmente accaduto. Tuttavia, invita la comunità internazionale a gestire la questione con cautela e optare per una soluzione “politica” e non militare in modo da non interferire negli affari interni siriani (The Guardian, 27 agosto).
Meno diplomatica di quella cinese la posizione del Cremlino, ancora furioso per quello che ha considerato un abuso del mandato ONU al fine di rovesciare il regime di Muammar Gheddafi in Libia. Il ministro degli esteri russo, Sergey Lavrov, ha ribadito il suo potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, aggiungendo che un intervento militare condotto senza mandato delle Nazioni Unite potrebbe avere conseguenze catastrofiche nella regione (Reuters, 27 agosto). Preoccupato che l’intervento in Siria possa trasformarsi in un “nuovo Iraq” e aggiungere un inquietante elemento destabilizzante agli equilibri già precari, condanna l’attuale “isteria, volta solo a rimuovere il regime di Assad” e a sovvertire la diplomazia internazionale sulla questione” (Reuters, 27 agosto). Per la Russia, dunque, l’unica strada percorribile è quella di una “soluzione politica” e non miliare, fermo restando che “la prova definitiva di un attacco chimico da parte delle forze governative siriane sarebbe irrealistica, oltre che speculativa. Il gruppo di ispezione può fare luce sull’utilizzo o meno di armi di distruzioni di massa, ma non sui mandanti dell’attacco” (Sergey Levrov, Reuters 27 agosto).
L’Europa divisa
Gran Bretagna e Francia si schierano con gli Stati Uniti nell’eventualità di un attacco. Il ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, è stato tra i fautori della politica de “bisogna fare qualcosa”. Negli incontri della scorsa settimana, che ricordano molto quelli anglo-francesi per la campagna in Libia, il ministro Fabius ne ha anche discusso i possibili scenari con il ministro degli esteri britannico, WIlliam Hague. Londra e Parigi sono tuttavia isolate in Europa, cosa che provocherà non poche divisioni nell’ambito della politica europea di sicurezza comune e spaccature in seno alla NATO, sotto la cui alleanza gli Stati Uniti dovrebbero spingere per il più ampio livello di consenso e supporto nel caso di un eventuale intervento militare.
La Germania infatti, sembra restia sull’appoggio esterno alle eventuali operazioni, in vista delle elezioni politiche del prossimo mese.
Dall’Italia, alla condanna per ”crimini intollerabili” del primo ministro Enrico Letta, si affianca la posizione chiara del ministro degli esteri Emma Bonino: “La Siria non è il Kosovo, non è così chiaro chi dobbiamo andare ad aiutare, i gas nervini sono un’atrocità ma solo le Nazioni Unite possono arrivare a conclusioni certe” (Il Mattino, 28 agosto). Il governo italiano ha preso una decisione netta, formulata ufficialmente durante la riunione delle Commissioni Congiunte Esteri-Camera- Senato: non parteciperà in alcun modo a nessun intervento di tipo militare, neppure se si tratti di una “guerra lampo”, senza l’avvallo dell’ONU. Il ministro degli esteri italiano è anche preoccupato dei possibili contagi dell’eventuale conflitto nei paesi limitrofi e in particolare, in Libano e in Giordania, dove sono confluiti milioni di rifugiati siriani.
“L’ONU è il quadro giuridico per un’eventuale azione militare. Non si può prescindere da un’azione del Consiglio di Sicurezza, basata anche sui risultati della missione degli ispettori, attualmente in corso” (Emma Bonino, RaiNews24, 28 agosto).
Quali possibili scenari?
Data l’assenza di un mandato delle Nazioni Unite a causa di una spaccatura nel Consiglio di Sicurezza, gli scenari che si prospettano in Siria sono di due tipi.
La cosiddetta soluzione “militare”, è caldamente sostenuta dal segretario di Stato statunitense John Kerry e dal segretario della difesa Chuck Hagel. L’idea, fondata su quella che stata definita anche dal Segretario generale della NATO Fogh Rasmussen, una violazione del diritto internazionale e il varco della cosiddetta ‘linea rossa’, è quella di una ‘guerra lampo’ che durerebbe circa tre giorni. L’attacco sarebbe effettuato attraverso il lancio di missili dalle portaerei su basi militari mirate e comprenderebbe il lancio dei droni (aerei senza pilota) dalle basi statunitensi situate a Cipro. La missione sarebbe avvallata dalla NATO sotto l’egida delle cosiddette missioni “non-article 5“. Le missioni non-articolo 5 sono quelle che vanno oltre la base legale della difesa collettiva (l’articolo 5, per l’appunto), condotte cioè per ragioni di sicurezza e non direttamente legate alla difesa territoriale. La tendenza segue lo sviluppo graduale nella definizione della strategia NATO, e cioè un’ulteriore ‘codificazione’ di compiti che hanno più a che fare con una agenzia di sicurezza internazionale che con un’alleanza militare difensiva (Istituto Affari Internazionali).
Oltre all’appoggio dei paesi europei Francia e Gran Bretagna, gli Stati Uniti contano sull’appoggio militare del secondo esercito più grande della NATO, ossia l’esercito turco, e di Israele.
Nel frattempo, il leader supremo iraniano, l’ayatollah Ali Khamenei, ha affermato mercoledì 27 agosto che l’intervento in Siria rappresenterebbe un “disastro nella regione” (Al Jazeera).
L’ultima parola sta al presidente Barack Obama, il quale pur condannando come attacco chimico quello siriano del 21 agosto, e pur attribuendone le responsabilità al governo di Assad, non si è ancora pronunciato sulla decisione finale. Lanciarsi in un’altra “missione punitiva” fondata sulla difesa dei diritti inviolabili ma allo stesso tempo pericolosa e incerta, potrebbe trasformare una guerra regionale in un altro conflitto su scala internazionale. Senza contare che la risposta della Siria potrebbe essere più feroce del previsto e trasformare la cosiddetta “guerra lampo” in un altro Iraq, o in un altro Afganistan.
L’altra soluzione , abbracciata dall’Italia, dalla Polonia e dalla Svezia, è quella diplomatica. La priorità è quella di una soluzione politica e il sostegno ad una transizione democratica in Siria. Continuare ossia sulla strada dell’iniziativa russo-americana verso Ginevra 2 e incanalando gli sforzi sui tentativi di avviare un percorso di pace attraverso i negoziati tra le parti.
Tutto il mondo aspetta che venga emesso il verdetto finale. Pugno duro o diplomazia? Due sono gli spunti di riflessione. Il primo: di che copertura legale godrebbe un eventuale attacco militare seppur nelle vesti di un’ottimistica guerra lampo, con un’Europa divisa e un Consiglio di Sicurezza spaccato? Non si tratterebbe dell’ennesimo intervento unilaterale non autorizzato (vedi Afganistan nel 2001 e Iraq nel 2003)?
E il secondo: le prove utilizzate dai servizi segreti statunitensi, sulla base delle quali risulterebbe chiara la responsabilità di Assad nell’attacco del 21 agosto, non dovrebbero essere messe sul tavolo delle Nazioni Unite, prima di dare il via ad una possibile carneficina?
In vista della cosiddetta “spedizione punitiva”, decantata come possibile scenario dal presidente Obama, invito i lettori a rileggere la storia di tutti gli interventi militari “chiave” effettuati dagli Stati Uniti da Grenada fino alla Libia.