Il trash-talking ed il tanking non sono il nome di due norme regolamentari del gioco del basket, ma due fenomeni legati all’NBA ben documentati e divenuti oramai prassi comune sui parquet statunitensi.
Mentre per il trash-talking, il fenomeno è più o meno circostanziato alla durata di una partita, il secondo è ben più articolato ed in grado di influenzare il futuro di molte franchigie NBA.
E’ difficile trovare uno sport in cui, sotto determinate circostanze, è meglio scendere in campo per perdere anzichè puntare alla vittoria, come si converrebbe ad uno sport, appunto.
E benchè nessuno osi ammetterlo, perdere partite per avere maggiori possibilità di scegliere un giocatore franchigia al draft dell’anno successivo è l’exit-strategy di molte squadre le quali, dopo aver consultato l’abaco, capiscono di non avere nessuna opportunità di disputare i playoffs e puntare ad un risultato che conta.
Ma la domanda nasce spontanea: il gioco vale la candela? Fare “tanking” inimicandosi i fans e producendo una pessima pubblicità all’NBA a cavallo dei mesi post-draft conviene davvero?
Chi segue l’NBA da molti anni potrebbe portare ad esempio i San Antonio Spurs della stagione 1996-97 i quali si aggiudicarono alla prima scelta al draft del 97 un certo Tim Duncan. Va detto che quella sfortunata versione degli Spurs era incentrata sulle indubbie qualità del leader David Robinson il quale però scese sul parquet solo 6 volte contribuendo alla debacle Spurs.
Ed è pur vero che la prima scelta assoluta contribuì non poco ad assegnare il titolo a San Antonio due anni dopo, ma per arrivare al Big-Three da sogno gli speroni dovranno aspettare fino al 2001 con Tony Parker scelto alla 28th chiamata e Manu Ginobili (chiamato l’anno seguente).
Mentre sono molti, anzi moltissimi, i casi che hanno riguardato squadre che dopo una stagione nefasta, hanno avuto ottime wild-card al draft sfruttate in malo modo.
Il draft del 2003 e la chiamata di LeBron James da parte dei Cleveland Cavaliers ha permesso alla squadra dell’Ohio di portarsi a casa un autentico fuoriclasse, il quale però non ha potuto festeggiare, in Ohio, il primo titolo NBA in carriera.
Non è andata di lusso ai Toronto Raptors nel draft 2006 (i quali scegliendo Andrea Bargnani coltivarono il sogno di una frontline da urlo con Chris Bosh) e neanche ai Milwaukee Bucks al draft 2005 portandosi a casa (senza preavviso) un centro di autentico cristallo come Andrew Bogut.
E rimanendo in tema di prime scelte stroncate (o quasi) da infortuni a ripetizione, altrettanto celebri sono i casi di Yao Ming con Houston (draft 2002) e di Greg Oden con Portland (draft 2007).
Ad avvalorare la tesi che il draft (ed il tanking) può rivelarsi un boomerang si osservi questa breve graduatoria che riporta il numero di scelte (tra le prime dieci chiamate) delle franchigie NBA nel periodo di riferimento 2007 - 2012:
1) Minnesota Timberwolves - 7
2) Sacramento Kings – 5
3) Charlotte Bobcats – 4
3) Milwaukee Bucks – 4
5) Cleveland Cavaliers – 3
5) Los Angeles Clippers – 3
5) OKC Thunders – Seattle Sup. – 3
Dalla tabella appare evidente come il semplice fatto di avere a disposizione delle chiamate al draft alte non garantisca affatto un futuro radioso, salvo il caso di OKC – Seattle che con quelle tre scelte si è portata a casa un terzetto di All Star formato da Kevin Durant, Russell Westbrook e James Harden (oltre a Serge Ibaka). E considerando che i cicli vincenti spesso nascono da una stagione sfortunata e da tanto duro lavoro in quelle successive, sarebbe forse il caso di onorare ogni gara di regular season, come occasione irrinunciabile per migliorarsi.