Originale nella forma,il titolo scelto per il suo blog letterario da Gianluca Mercadante.
Ma magro il compenso.
E ce ne dispiace,ognuno di noi da giovane e meno giovane,ha le sue belle ambizioni e le gratificazioni tardano ad arrivare.
Vita da artista oggi significa avere due occupazioni,ma se guardate bene anche nel passato molti artisti o avevano la taverna alle spalle,o il banco tipo General Store del Far West dove vendevano un pò di tutto,o morivano di fame o,proprio alla peggio, dovevano ricorrere al pane.. indigesto perlopiù..con le dovute sante eccezioni…di uno suocero ricco e.. munifico.
Di suoceri ricchi ne continuano ad esistere,di munifici non so,di figlie vagabonde..che dopo il primo matrimonio col pittore..scappano con il giocatore di bocce che vince tutti i tornei dei Paesi Bassi..sicuro ce n’erano,per cui qualcuno ce l’avrà fatta ad emergere subito dopo sposato.
Se ad esempio uno suocero ricco ti compra tutta la produzione e la rivende ai ministeri,al governatore generale,alla chiesa,e pure in esportazione agli amici stranieri, che a loro volta poi li rivendono,l’affare l’avete fatto in due,tre e non so quanti ancora.
Peccato poi per la moglie che ti ha lasciato,in fondo un giocatore di bocce all’epoca era di moda come d’inverno un pattinatore sul ghiaccio, fregatene..di donne è pieno il mondo…e poi rotto il ghiaccio..ne salta fuori un’altra.
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Senza parole
La vita è piena d’incertezze perché le certezze, in genere, sono abbastanza deprimenti. Il fatto che l’autostrada per Bologna sia sempre un torrente di carne e lamiere, è una di queste.
Eravamo in ritardo sulla tabella di marcia; benché fossimo partiti con saggio anticipo, la coda al casello di Milano, e il torrente di cui sopra, avevano fatto schizzare a tutto gas le lancette dell’orologio, anziché la nostra automobile.
Il mio agente, alla guida, bestemmiava a intervalli regolari. A ogni rallentamento.
I ragazzi, per fortuna, erano già arrivati sul posto da quel di Brescia. Di lì a mezz’ora, da cartellone, avremmo dovuto presentare un mio libro in musica. Stavamo portando in giro lo show da alcuni mesi e non c’erano dubbi, per carità, ognuno sapeva dove entrare e cosa fare, senza bisogno di guardarci in faccia. La qual cosa, sarete d’accordo, rappresentava una certezza, o no?
Nì. Il problema è che le certezze passano in fretta. Come la vita.
- Avverti i ragazzi. – Aveva detto il mio agente a un tratto, o meglio: nel tratto in cui il traffico riprendeva a scorrere e lui, da par suo, riprendeva a comunicare con la Terra, oltreché coi Vertici dell’Aldilà.
- Qua prima di un’ora non ce la sbrighiamo, garantito. Chiedi se è tutto ok e… ecchécristo! –
Altro rallentamento.
Avevo il numero in memoria. Il cantante, invece, il cellulare a portata di dito.
- Dove sei? –
Né il tono di voce, né il sottofondo mi erano piaciuti.
- State facendo il sound check? Siamo un po’ in ritardo, c’è traffico in autostrada. –
- Il sound check l’abbiamo finito mezz’ora fa. Dove sei, ti ho chiesto. –
- E… e, scusa, e ’sto casino cosa sarebbe, allora? –
- Un altro gruppo. –
- Ah. Non sapevo fosse una serata a più ospiti. –
- Non è una serata a più ospiti, infatti. Appena fuori dal bar dove suoniamo noi, nella piazza, stasera ci sarà un concerto. Non ti puoi sbagliare, guarda. Quando arrivi, noi siamo grosso modo sotto alle casse di destra. Casse da concerto. Mi spiego? –
- Temo di sì. –
- E non ti ho detto la più bella. –
- Sarebbe? –
- Dubito che le vetrine del locale abbiano i doppi vetri. Questo cazzo di posto è il Bar Sport. –
Cristo.
Stavolta avevo offerto io un eccellente contributo al pomeriggio del perfetto miscredente.
Arrivati nella piazza principale del paesello emiliano, devo ammetterlo, mi ero rincuorato: la cornice era di una certa bellezza e sul fatto che un gruppo stesse provando i volumi si poteva secondo me soprassedere. Erano le sette passate ed entro mezz’ora avrebbero di sicuro posato gli strumenti per correre a ingozzarsi di tortellini.
Ma il bar era davvero indifendibile. Aveva tutte le caratteristiche per arrivare primo, leggendo la classifica dal fondo. Perfino il mobilio sembrava essere stato comprato di seconda mano negli anni Cinquanta e da allora nessuno si era più preoccupato di dargli una rinfrescatina. Sopra i tavolini, bloccate da appositi e arrugginiti fermagli, non mancavano neppure quelle squallide cerate tuttora in uso esclusivo presso un paio di trattorie milanesi a prova di fidanzata. Portateci la vostra “simpatia” del momento: se il giorno successivo vi risponderà come sempre al terzo squillo, sposatela. Quelle sono donne da amare tutta la vita.
Avrà pensato la stessa cosa il comproprietario del luogo allorché, decenni addietro, conobbe l’odierna mummia di guardia al bancone, una specie di Miss Marple travestita da lavandaia del tardo Ottocento. Invano l’omuncolo tentava di trattenerla per il grembiule quando io e il mio agente eravamo entrati.
- Sareste voi quelli della casa editrice?! – Aveva subito inveito.
Il mio agente, confidando in un aplomb suo malgrado ridotto all’osso da ore di guida in autostrada, aveva fatto presente alla donna un paio di basilari aspetti nel rapporto professionale che, teoricamente, era stato in precedenza avviato. Uno: lui e lei, in maniera diretta, non si erano mai parlati; due: lui rappresentava gli interessi dell’autore, cioè io, e aveva contattato semmai l’Assessore alla Cultura di quel Comune, che gli aveva caldeggiato il bar di Miss Marple come un luogo storico del paese, ideale sede per salotti letterari pre-estivi.
- E i suonatori cosa c’entrano, caro lei?! – Aveva detto la donna per tutta risposta, accennando ai miei amici di là.
Il locale era fatto a “L” e il bancone in legno ne occupava l’intero ingresso. Per accedere alla parte corta della “L” bisognava aggirarlo, azione che, data la piega della polemica in corso, mi ero risolto a compiere.
- Qui la luce… – Tuonava intanto la donna – …la pago io, sa?, mica il “suo” Comune! Ah, ma io vi faccio smontare tutto. –
I ragazzi non credo approvassero l’atteggiamento di Miss Marple, a giudicare dall’impegno profuso nel tentativo di rispettare gli equilibri del suo malandato regno. Il tastierista si era sistemato su due tavolini, presi a prestito cerate incluse, e vi aveva appoggiato sopra, in un accrocco assurdo, tastiera, computer e consolle. Bassista e trombettista avevano cercato anche loro un posto nel mondo, con risultati altrettanto approssimativi, mentre il cantante e chitarrista, al centro della sala, fissava i trofei di caccia e pesca che l’omuncolo (presumo) aveva messo in bella mostra dentro un armadietto a vetri quei trent’anni fa.
Il tempo di un ciao e di uno sguardo, poi tutto era già chiaro.
Se esiste una certezza non per forza deprimente di cui tenere conto nella vita è che le persone, in determinati frangenti, si parlano con gli occhi e si guardano con la bocca.
Vedete, in questo mondo qua, quello delle scritture, capita d’incrociare figure che hanno a che fare con universi analoghi, gente mossa da un’identica passione per qualcosa che non è esattamente l’impiego in banca. C’è però un dettaglio da non sottovalutare mai: con la passione non ci si pagano le bollette – e tuttavia esistono ragazzi disposti a farsi i chilometri in nome di un’amicizia, per stima personale, per via di pulsioni gemelle, e pure eterozigote, che, una volta fuse, tornano ad abitare un unico essere, daccapo nuovo e gonfio di significati chiari a pochi.
Persone simili è un peccato prenderle in giro. È un peccato, nella fattispecie, che un Assessore alla Cultura suggerisca loro di venire a suonare in un bar dove l’invenzione più avveniristica rimane la radio, oltre a ignorare bellamente il calendario degli eventi previsti nel piccolo paese che l’ha eletto e, quindi, ad accorparli, a sovrapporli senza la benché minima logica.
Per intenderci: nella piazza principale si sarebbe tenuto il concerto gratuito di una nota formazione italiana; noi stavamo per inaugurare una kermesse musical-letteraria, che avrebbe avuto sede lì anche per i prossimi quattro incontri, e tutto attorno gravitava un mercato etnico. Tant’è vero che, una volta riuniti sul posto al gran completo, era sopraggiunto un vigile e ci aveva intimato di spostare le macchine. Avevamo tutti parcheggiato di lato al locale, appena dietro la piazza. A breve sarebbero stati allestiti gli ultimi banchetti e la zona chiusa al traffico.
Vedete, in questo mondo qua, dicevo, è davvero triste trattar male la gente che lavora. E non mi riferisco al vigile. Pubblicatelo voi, un libro, incidetelo voi, un disco, e poi andate a suonare e a leggere le vostre robe in un posto del genere, gratis et amore Dei.
Bisognerebbe scrivere una legge, anziché un racconto. Bisognerebbe tutelare il diritto alla passione. Bisognerebbe tutelare la passione quando diventa mestiere – e sostenerla di conseguenza sul piano economico. Bisognerebbe trattare col dovuto rispetto chi propone il suo lavoro a un qualsiasi pubblico e bisognerebbe che quel lavoro imparassimo tutti quanti a considerarlo tale.
Con la scrittura, con la musica, con le arti non ci si gioca.
Gli occhi avevano dunque detto, le bocche non ancora visto. Mantenevano immutata la propria funzione solo le orecchie e al tacere degli amplificatori sul palco della retrostante piazza avevano letto quel momento di relativo silenzio come una linea di demarcazione, come un punto oltre il quale avremmo dovuto optare per una scelta.
- Allora? – Si era pronunciato qualcuno. Forse io, forse il cantante, forse il mio agente. Non saprei.
- Allora lo spettacolo era previsto alle sei e mezza. Sono quasi le otto e non c’è nessuno. – Aveva osservato, puntuale, qualcun altro.
La scelta più assennata era quella di seguire alla lettera i ragionamenti di Miss Marple e rincasare. Invece proprio lei si era pentita del comportamento che aveva assunto nei nostri riguardi e, tornati a piedi dal punto in cui avevamo lasciato infine le macchine, ci aveva con molta cortesia proposto di sedere fuori, dove stavamo appunto rimuginando sul da farsi. I tavolini, qui, non avevano le cerate e sembravano, di primo acchito, più recenti. Diciamo fine anni Sessanta, inizio Settanta, va’.
Eravamo serviti sia da lei che dal marito, e la qualità dell’aperitivo andava in pari con l’impressione che il bar ci aveva trasmesso, ma il gesto dei due attempati lavoratori palesava una dignità oggi assai rara. Era imbarazzante rispondere “sì” ogni qual volta lui o la moglie venivano a domandarci se andava tutto bene. No che non andava bene, signori, non c’era nulla che andasse bene in quel giorno, in quell’ora, in quel minuto, in quello sputo di piazza di uno sputo di paese di uno sputo d’Italia, d’Europa, del mondo. Niente di niente di niente andava bene. L’unica cosa che poteva andare bene era filarcela, in fretta e furia, ma ormai, con le auto distanti e l’affluenza ai banchetti del mercato etnico quadruplicata, l’idea di saettare fra centinaia di compratori, con appresso casse e strumentazione, non ci appariva granché allettante.
- Cosa facciamo? – Aveva in conclusione chiesto chissà chi.
- E che vuoi fare? Suoniamo. –
- Suoniamo?!… E per chi? –
Le parole di tanto in tanto rinunciano a nominare ciò che si è pensato. Lasciano perdere. Fanno le valigie, le parole, se ne vanno per i fatti loro, e vogliono farlo perché sono esatte, perché altrimenti, se usate col bilancino, sanno soltanto enunciare verità.
Quindi, l’unica risposta possibile poteva essere: suoniamo per noi.
A patto di dircela senza lingua, senza denti, senza palato, senza sintassi. Senza parole.
A patto di farlo e basta.
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