Ong (1999) definisce la ‘cittadinanza flessibile’ come le logiche e le pratiche dell’accumulazione capitalistica che sono prodotte all’interno di particolari strutture di significato sulla famiglia, il genere sessuale, la nazionalità, la mobilità di classe, e il potere sociale. All’interno di queste logiche e pratiche culturali, la globalizzazione ha indotto una situazione di ‘sovranità graduata’, per cui, anche se lo stato mantiene il controllo sul suo territorio, è anche disposto in alcuni casi a permettere che entità corporate dettino i termini per costituire e regolare alcuni domini. Questo fenomeno ha acquisito una vistosa trasparenza proprio con questo ciclo di crisi economica, dove entità sovranazionali non politiche (come la Commissione o il Parlamento Europeo, per esempio), ma ‘tecniche’ come la BCE, le agenzie di rating, l’FMI dettano agende politico-economiche e addirittura cambiano i governi che mostrano una parvenza di opposizione con altri più coerenti, anche per via di appartenenza ‘tecnica’, con l’agenda di queste entità sovranazionali. Tuttavia, afferma Ong, lo spread di sovranità sociale non mina lo stato come locus di sovranità.
Lo stato d’eccezione, d’altra parte, è la zona topologica di indistinzione che deve restare nascosta agli occhi della giustizia, dove l’eccezione e la regola, lo stato di natura e la legge, il fuori e il dentro, passano l’uno attraverso l’altra (Agamben 1999). Secondo teorie della legge come quella della “eccezione” teorizzate da Benjamin (1922), Schmitt (1922) e, in seguito Agamben (1995), la nozione di margini comincia solo alle più lontane estremità dello stato e della legge o al di là di essa. Opere recenti sulla produzione di legge ai margini come Das e Poole (2004) e Roitman (2004, 2005), come pure le nozioni di civile, cittadinanza e stato (Ong 2004), hanno mostrato invece che non è necessario equiparare la legittimità con lo stato. La legge non è un segno dello stato e la legalità può essere prodotta accanto allo stato o al fuori di esso, come nel caso della Somalia (Van Notten 2005, MacCallum 2007). Esiste una pluralizzazione dell’autorità statale e una sua trasformazione attraverso figure come contrabbandieri e appartenenti al crimine organizzato tanto che, attraverso la multiforme natura delle formazioni statali, ora è possibile per Harvey (1996) sostenere che l’organizzazione dei contrabbandieri è ‘illegale ma lecita’. E’ un concetto che vale la pena di ricordare, perché è visibile ogni giorno, per esempio nelle nostre strade quando vediamo decine di vu cumprà svolgere la loro attività commerciale alla luce del sole e con scarsa o nulla opera di contrasto. La vendita di merce contraffatta, il contrabbando di sigarette, liquori e tecnologia di uso corrente, il lavoro nero e sommerso producono un’organizzazione che non mira tanto a colpire il potere statale, quanto a contestare i suoi criteri di regolamentazione, come ha teorizzato Roitman in relazione alle attività illegali e lo stato nel bacino del Lago Chad, un lago poco profondo, situato nella parte centro-settentrionale dell’Africa sui confini di Ciad, Camerun, Niger e Nigeria.
Il Cameroon, il Chad e la Nigeria sono tutt’altro che ‘stati falliti’, secondo Roitman. Quello che funziona è in realtà un sistema economicamente produttivo di redistribuzione multipla di pagamenti diversamente regolati che è di per sé un modo di potere statale. Burocrati, poliziotti e altri impiegati dei diversi governi sono importanti per la consolidazione del potere statale, anche se possono lavorare per minare l’autorità regolamentatrice statale accettando mazzette e bustarelle. Così la pluralizzazione di figure di autorità regolamentatrice è strettamente connessa con la ricostituzione del potere statale, e non con il fallimento dello stato, afferma Roitman. In altre parole, stato e ‘antistato’ per usare un termine caro alla retorica dell’antimafia, sono legati insieme. Nel bacino del Chad l’attività illegale (contrabbando, falsificazioni di documenti, carte di credito clonate, droga, traffico di immigrati, controllo della prostituzione a livello internazionale, merci contraffatte, traffico di armi e medicinali, traffico di rifiuti tossici, rapimenti a scopo di riscatto, come quelli recenti di alcuni italiani, ecc.) sono un metodo alternativo di entrata e accesso alla ricchezza, che offre una forma alternativa di mobilità sociale all’interno della società civile. Non è difficile fare il paragone tra questa situazione descritta dalla Roitman e certe regioni italiane.
Durante la cosiddetta Prima Repubblica, l’aggettivo “gavianeo”, riferito al napoletano Antonio Gava, uno dei leader della Democrazia Cristiana, aveva un’accezione assai negativa: significava un coacervo di potere politico e clientelare, e per qualcuno anche mafioso, impossibile da scardinare e causa primaria dei mali della metropoli partenopea.
Percy Allum (1975, 2001), scrittore, sociologo, politologo e docente universitario britannico, autore di un saggio poderoso sulla DC napoletana e il suo sistema di potere, un approccio alla storia centrato sul nesso affari–politica–criminalità, che dopo il gavaismo è proseguito con il bassolinismo, valido non solo a livello locale, in una intervista riportata da Geremicca (1977) chiarisce bene questo intreccio:
[Sui napoletani] L’elemento fondamentale è l’estraneità di vasti strati della popolazione dalle istituzioni della repubblica italiana, con tutte le conseguenze che ne derivano: la sopravvivenza del sistema paternalistico clientelare, l’ambigua accettazione dei valori sociali dominanti, la rottura causata dall’emigrazione e dalle trasformazioni economico-sociali.
Il napoletano è convinto di vivere in un mondo ostile, sul quale non è in grado di esercitare alcun controllo… I rapporti tra gli uomini sono regolati da una concezione fatalistica, nella quale l’Autorità svolge lo stesso ruolo che ha il «destino» nel mondo naturale. In passato, se chi comandava faceva il suo dovere, il popolo lo sosteneva; quando non lo faceva più, il popolo scatenava una piccola rivolta… Il gran numero di dimostrazioni di piazza e di jacqueries che costellano le pagine della storia del napoletano è la prova di quanto sia radicata negli abitanti la fiducia in questo tradizionale meccanismo.
In un interessante articolo, Mafia, una analisi, lo storico Francesco Marelli fa una storia delle varie analisi del fenomeno mafioso, che è stato anche oggetto di monografie di antropologi del Mediterraneo, H.Hess (1984), A. Blok (1986) e J. Schneider, P. Schneider (1989, 2009). In questi studi antropologici degli anni 1970 (tradotti in italiano negli anni 1980), gli studi precedenti di politici, storici e sociologi sulla mafia come fenomeno di arretratezza vennero riletti interpretando il mafioso come ‘mediatore sociale’, come figura privata che attraverso un uso illegale della violenza si sarebbe sostituito allo stato nelle funzioni relative all’uso della forza, come la pacificazione dei conflitti o la compensazione della giustizia tra le parti. In altre parole il mafioso come una specie di vicario del poliziotto e del giudice in aree così arretrate e isolate che lo stato non è in grado di intervenire. Se la mafia è prodotto della subcultura della povertà, pensavano questi antropologi e pensatori come Napoleone Colajanni, una politica di riforme e di aiuti allo sviluppo avrebbero segnato la fine del fenomeno mafioso. Contrariamente a queste aspettative, promosse in primo luogo dalle sinistre social-comuniste, la mafia non sparì, ma si sviluppò maggiormente e divenne ‘mafia imprenditrice’ secondo al definizione di Pino Arlacchi agli inizi degli Anni 1980. Anzi certe elite mafiose si sentivano tanto forti da inaugurare la stagione delle stragi e della trattativa con lo stato, finendo però con l’essere travolte dalla forza dello stato italiano stesso. Cos’era successo? (continua) (Bibliografia nella parte 3).