Ieri sera sono stata a teatro.
A me piace il teatro e vorrei assistere a spettacoli di prosa più spesso. Mi affascina l’architettura del luogo, la costruzione della finzione, scene e costumi ma, soprattutto, la rappresentazione di uno spaccato di vita. Mi diverte, mi fornisce spunti per pensare, mi cattura. E’ catartico, come ben sapevano già secoli fa: è utile per rielaborare.
A volte le parole mi fanno venire la pelle d’oca e mi incantano: è successo quando ero piccola davanti ad Ave Ninchi in un Goldoni, o qualche anno fa, con la Medea della Melato o il Calibano di Silvio Orlando. Ci sono state serate in cui lo spettacolo mi ha lasciato indifferente o mi è sembrato piacevole ma non al punto di essere affascinante, come nel caso di ieri.
Andava in scena ”Un marito ideale”, della compagnia Lavia Anagni, in quella bomboniera meravigliosa ed assurda del Teatro Sociale di Brescia. Meravigliosa perché è una scatola di velluto azzurro carta da zucchero su un’intelaiatura di ferro nero in perfetto stile liberty; assurda perché ci sono innumerevoli punti da cui non si vede il palco o lo si vede da sopra o da sotto una delle suddette intelaiature, affossandosi nel sedile, allungando o torcendo il collo come una giraffa.
Al di là della riuscita della rappresentazione in sé, quello che mi colpisce sempre è l’attualità di certi testi, che siano stati scritti due millenni o qualche secolo fa. Le cose basilari della vita umana hanno valore universale e imperituro: l’amore, la morte, i legami famigliari, l’eticità dei rapporti sociali. Cambiano le fogge dei costumi, la tecnologia dell’illuminazione di scena, le modalità di emissione dei biglietti ma l’uomo non cambia mai. Siamo evoluti sotto una pluralità enorme di aspetti ma, se ieri abbiamo riso tutti davanti a battute che riguardavano i giochetti della politica è perché gli stessi giochetti avvengono ancora, 120 anni dopo, così come accadevano nei fori romani e nelle agorà greche. Come il teatro ci ricorda, implacabilmente, l’uomo è sempre uguale a sé stesso.