Magazine Cultura
L'anno di grazia di 2012 si è riempito a sorpresa di dischi degli amati settantenni che furono la scena del rock, da Bob Dylan a Leonard Cohen, da Bruce Springsteen a Neil Young, da Ry Cooder a Van Morrison, per tacere di "minori" come Little Feat, Bonnie Raitt, Dr. John. Sono dischi anche buoni (alcuni più, altri meno) e qualche volta contengono anche qualche ottima canzone. Ma sono dischi inutili: non aggiungono nulla né all'ascoltatore né all'artista né alla musica rock. Se non li avessi ascoltati non mi sarei perso niente. Più che rock è "revival", per usare un termine con cui negli anni '70 si definivano le canzoni di una volta: Elvis o Sha-na-na, "oldies but goodies". Musica anacronistica: se la scena rock ancora esiste non abita più qui. Il problema è proprio che una scena rock forse non esiste più. Una musica che nacque nel 1955, quando Rock Around The Clock fece il numero 1 delle classifiche nazionali USA; accompagnato da Maybellene di Chuck Berry, Baby Let's Playhouse di Elvis, Tutti Frutti di Little Richard e I Got A Woman di Ray Charles. Se ne è (forse) andata dopo una luminosa e straordinaria parabola, negli anni 90 con gli ultimi capolavori di Wallflowers (Bringing Down The Horse), Dave Matthews (Before These Crowded Streets) e Phish (A Live One). Da allora fingiamo che sia viva per poter continuare a ritirare la pensione. Mi da l'orticaria la banalizzazione del rock in atto sui media e sulla stampa non solo generalista ma anche frivol-rock. Ovunque è un fiorire di miti del passato, di anniversari di morte (un cimitero di guerra), di copertine con Jimi Hendrix e uno spreco della parola "capolavoro". Questo non è rock: il rock è cattivo e scomodo e non abita nelle ristampe di lusso di LP per professionisti bohémienne. Le celebrazioni sono sempre una normalizzazione del sistema, un mettere il bavaglio, una banalizzazione. Non viene celebrato il rock ma icone da supermercato, come un Che Guevara su una t-shirt. Si usano termini banali, luoghi comuni, svendite sulle bancarelle. Si chiama rock ciò che rock non è. Chiamatelo pop e lasciateci in pace. C'è una linea precisa tracciata sul suolo: da una parte c'è la musica che ha avuto un significato per la nostra generazione, e si chiama rock. Dall'altra c'è il mercato, il marketing, la moda, le riviste glamour, le riviste frivole, i giornalisti senza critica, quelli che dicono "la poetessa del rock", gli ascoltatori senza cultura, la TV, gli eventi mediatici, i gruppi di vecchietti che suonano ai concerti teletrasmessi. Quello si chiama pop.
Detto questo, anche quest'anno ho la mia lista. Sulle prime ho pensato di pubblicare una lista vuota ma poi ho capito che non sarei stato davvero sincero. Allora mi sono domandato: quali dischi di quest'anno ricomprei? (Perché i dischi di cui parlo li ho pagati quasi tutti, perché per recensire con sincerità i dischi bisogna averli pagati e non ricevuti gratis ad una presentazione stampa mangiando un pezzetto di grana arruffianandosi il discografico e magari anche il direttore).
oro:
Graham Parker & The Rumour: Three Chords Good
Ian Hunter: When I’m President
Neil Young & Crazy Horse: Psychedelic Pills / Americana
argento:
Mark Lanegan Band: Blues Funeral
Blues Traveler: Suzie Cracks the Whip
Dave Matthews Band: Away From The World
mirra:
Veronica Sbergia & Max De Bernardi: Old Stories for Modern Times
Lowlands: play Woody
Cheap Wine: Based On Lies
Lowlands: Beyond
Miami and the Groovers: Good Things
concerto dell'anno:
Tom Petty & Heartbreakers a Lucca
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