Mi sto avvicinando con cautela al cinema di Tsai Ming-liang. È difficile, come spesso accade con gli Autori dalla A maiuscola, e nell’arduo compito di scrivere su di lui e su quel che fa, mi accorgo di non lodarlo troppo ma anzi, alla fine parrebbe più negativo che positivo il bilancio globale. Non è così nella realtà dei fatti, non è così e proverò a spiegarlo.
The Hole è un film di rinunce.
La più grande, più facilmente rivelabile ma di cui si potrebbe con grande errore sottovalutarne l’importanza, è la decisione coraggiosissima da parte del regista di non usare le musiche. Che detto così non sembrerà un’assenza pesante, in fondo è (credo) pensiero comune che al cinema pesino più le immagini dei suoni; è probabile, per carità, tuttavia il film mi ha fatto riflettere di quanto il sonoro abbia l’insostituibile capacità di risvegliare emozioni recondite. Provate a immaginarvi Profondo rosso (1975) senza i Goblin, o per rimanere in territori oltrefondiani un film di Tarr senza le composizioni di Mihály Víg. Sono due componenti (immagine e suono) che vanno a braccetto aldilà della nostra percezione, il connubio lo accettiamo quasi per partito preso, e quando si presenta una situazione come quella proposta da Tsai si avverte uno sbilanciamento dei mezzi utilizzati a favore delle immagini che difficilmente, almeno per quel che sono io, trasmetterà a chi guarda quell’agognata empatia. The Hole risulta “freddo” alla visione, che porta alla distrazione con i silenzi “bagnati” e la staticità delle sequenze. Il poco coinvolgimento non sarà imputabile esclusivamente alla mancanza di uno score enfatizzante, ma una buona percentuale ce l’ha.
Detto questo, sarebbe scorretto affermare che Tsai non si sia occupato delle nostre orecchie. Il regista rinuncia all’armonia delle note per affiancare alle scene uno scroscio incessante di acqua (vera fisima dell’artista) piovana il quale possiede nell’interpretazione della vicenda una qualità isolante, decontestualizzante. Uomo e donna che vivono in un loro mondo, così vicini, così universalmente lontani.
Quindi: il film sarà avaro di emozioni, ma l’idea che lo attraversa è tanto ma tanto brillante.
Un’altra rinuncia è quella della parola.
E anche questa privazione non aiuta a creare un ponte di collegamento fra il film e chi ne fruisce. Maneggiare il silenzio è sempre prova complessa, sia per uno spettatore che, immagino, per un regista. C’è il rischio di sovrainterpretare o all’opposto di deprezzare. È necessario muoversi avvedutamente, sforzando la nostra attenzione oltre gli istanti vuoti ripresi, lunghi e a volte noiosi, per arrivare a giustificare tale scelta che è a mio avviso stonata come l’omissione del sonoro, ma che nonostante ciò traduce meglio di qualunque lirica ostentata la solitudine che artiglia questi due poveretti. Per certi versi ci troviamo di fronte ad un dramma di poca comunicabilità simile a Che ora è laggiù? (2001) dove l’avvicinamento tra le due anime avveniva grazie al cinema, mentre qui, un po’ più prosaicamente, grazie ad un buco nel soffitto – ma sulla simbologia del buco ci sarebbe da dire: allusioni sessuali, di deviazione –.
La strada irta di ostacoli che conduce al traguardo ha, comunque, una piccola grande inquadratura risarcitoria per la fatica impiegata. È quel braccio teso, quasi rubato dalla mdp, a trasformare la solitudine in solidarietà, e a far apprezzare The Hole, nonostante tutto.
Per mio conto non posso che ribadire un continuo distacco tra i miei gusti personali e il cinema di Tsai. Un distacco che però non prescinde dal rispetto per questo regista.