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Ultimamente, guardando quanti più film possibili, mi rendo conto che, pur sforzandomi di comprendere tutto, o almeno una buona parte, di ciò che vedo, ci saranno sempre delle pellicole che resteranno al di fuori dell'ovvio e della facile interpretazione. Anche se questo significa andare contro alle convenzioni e all'opinione comune, che può fare di un film, un "gran" film. Capita spesso, ed è capitato anche oggi con The Hurt Locker.
Kathryn Bigelow porta questa sorta di documentario bellico a Venezia, nel 2008. Lo presento come tale, poiché al fianco della regista californiana, si fa sentire e non poco, il giornalista reporter Mark Boal, che non a caso ha scritto il film. Ttrentotto giorni nell'unità speciale Bravo Company, dove ognuno di questi, potrebbe essere l'ultimo. Siamo in Iraq, ma il dove geografico è un pretesto, ciò che caratterizza il luogo è la (non)vita di questi uomini in balìa delle loro stesse paure che, all'improvviso, li rendono schiavi, dipendenti e assuefatti dalla loro missione, condannata (il più delle volte), a non avere ritorno. Dall'ennesima cassetta del dolore (da qui il titolo del film), finisce la vita di un soldato ed entra in scena il degno successore. Il sergente James/Jeremy Ranner è un artificiere con alle spalle più di ottocento ordigni disinnescati, ed è l'emblema dei danni irreparabili causati dalla guerra. Non è un eroe, è vittima!!!
L'uomo/leader del gruppo, forse il più indifferente all'idea della morte, quello che senza pensarci su due volte si infila la tuta dell'artificiere, quasi come fosse l'uomo della luna, e imbocca quella che potrebbe essere la via del non ritorno. A ben vedere gli altri personaggi fungono da pedine che il più delle volte somigliano alle classiche "mascherine" nate nei film di, e sulla guerra. O meglio, a parte James, nessuno dei compagni possiede una personalità o un impatto narrativo che vada oltre gli schemi disegnati dalla Bigelow e scritti da Boal. Questo contribuisce a fare di The Hurt Locker un film impeccabile dal punto di vista registico. Le riprese nel deserto e la caccia ai nemici nascosti nel fortino, i corpi disidratati e gli occhi stremati del sergente Sanborn/Anthony Mackie sono significative. Ad ogni modo, appaiono in un certo senso eccessive ben sei statuette per un film che, a conti fatti, è nulla più dell'ennesimo war movie che prosegue sulla scia di Redacted di De Palma e Nella valle di Elah di Haggis. Punto forte del film, dicevamo, le riprese in stile reporter che fanno emergere gli stati labili delle menti di questi "volontari per la morte". Tutto crolla però, quando la Bigelow tenta ribaltamenti registici che spezzano l'andamento del film. L'iniziativa di James di prendere i suoi due compagni e andare fuori dai confini stabiliti dalla missione, pur di soddisfare la propria adrenalina smaniosa e irrefrenabile, risulta infatti una sequenza fuori luogo e poco credibile.
La musica di Marco Beltrami offre un importante contributo per la riuscita visiva, e bene si adatta allo stile del film. Rimangono indelebili i momenti che io considero "chiave", come il rientro a casa di James e il suo spaesamento al supermercato, davanti a una serie infinita di cereali in scatola. Oppure il corpo del bambino che somigliava al piccolo Beckham. La donna irachena che si ribella allo straniero piombato in casa all'improvviso, è forse la firma della Bigelow, una donna che ha deciso di non stare a guardare ma di agire, di fare qualcosa su questo campo, su questa terra di nessuno. C'è qualcosa però, di questa regista che io non comprendo, non apprezzo fino in fondo. Al di là delle elezioni di quell'anno e al di là del fatto che Obama sicuramente avrà una copia placcata in oro del film della Bigelow, nella dvdteca personale. Ma parliamo del film, e di quello che a me proprio non va giù. L'iracheno chi è? Il nemico viene messo nell'ombra e appare come "il cattivo", punto. Quello che ti prende alla sprovvista e capace di atti ignobili e atroci. La macchina da presa mette in guardia dalla guerra e dalla sua dipendenza, che si impossessa degli uomini, come una droga. E mette in guardia dal nemico, dall'iracheno appostato da qualche parte.
Questo mi porta a credere e, a concludere che, The Hurt Locker sia un film politicamente da Oscar, e non cinematograficamente. E c'è una bella differenza...
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