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The Raven - James McTeigue

Creato il 13 luglio 2012 da Frank_manila
The Raven - James McTeigue James McTeigue stupì tutti qualche anno fa quando portò sullo schermo la graphic novel di David Lloyd V per Vendetta, un debutto eccellente al quale è seguito il bruttarello Ninja Assassin.
Per questo sua terza prova McTeigue torna al gotico partendo da una curiosità sullo scrittore Edgar Allan Poe e sulle misteriose circostanze che lo portarono alla morte. Il film dovrebbe narrare, in modo molto fantasioso (e poco plausibile visto che non sarebbero più tanto misteriose le circostanze), proprio dei fatti che portarono al ritrovamento di un moribondo e delirante Poe su quella panchina in un parco di Baltimora.
Il film, tra rimandi a La vera storia di Jack lo Squartatore, alla rivisitazione tipo lo Sherlock Holmes di Ritchie, ad una velata ricostruzione frammista di storia e letteratura e qualche alleggerimento ironico, si rivela essere un discreto thriller d'intrattenimento. Siamo di fronte ad un prodotto per niente insormontabile ma comunque onesto, ben girato e ben interpretato dai solidi John Cusack, Luke Evan e il grande Brendan Gleeson.
Si può fare, ma senza troppe pretese.
Imdb
Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato meditavo sovra un raro, strano codice obliato, e la testa grave e assorta — non reggevami piú su, fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta. «Un viatore, un pellegrino, bussa — dissi — alla mia porta,                           solo questo e nulla più!»
Oh, ricordo, era il dicembre e il riflesso sonnolento dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento. Triste avevo invan l’aurora — chiesto e invano una virtù a’ miei libri, per scordare la perduta mia Lenora, la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora                           e qui nome or non ha più!
E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti! tanto infine che, a far corta — quell’angoscia, m’alzai su mormorando: «È un pellegrino che ha battuto alla mia porta, un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta,                           questo, e nulla, nulla più!».
Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse, mossi un passo, e: «Signor — dissi — o signora, mille scuse! ma vi giuro, tanto assorta — m’era l’anima e quassù tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta, ch’io non sono ancor ben certo d’esser desto». Aprii la porta:                           un gran buio, e nulla più!
Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un’ora stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora! ma la notte non dié un segno — il silenzio pur non fu rotto, e solo, solo un nome s’udì gemere: «Lenora!» Io lo dissi, ed a sua volta rimandò l’eco: «Lenora!»                          Solo questo e nulla più!
E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quaggiù, qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero! Lasciam l’anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero!                           Sarà il vento e nulla più!
Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne, grave, altero, irruppe un corvo — dell’età la più solenne: ei non fece inchin di sorta — non fe’ cenno alcun, ma giù, come un lord od una lady si diresse alla mia porta, ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta,                           scese, stette e nulla più.
Quell’augel d’ebano, allora, così tronfio e pettoruto tentò fino ad un sorriso il mio spirito abbattuto: e, «Sebben spiumato e torvo, — dissi, — un vile non sei tu certo, o vecchio spettral corvo della tenebra di Pluto? Quale nome a te gli araldi dànno a corte di Re Pluto?»                           Disse il corvo allor: «Mai più!».
Mi stupii che quell’infausto disgraziato augello avesse la parola, e benché quelle fosser sillabe sconnesse, trasalii, ché, in niuna sorta — di paese fin qui fu dato ad uom di contemplare un augel sovra una porta, un augello od una bestia aggrappata ad una porta                           con un nome tal: «Mai più!».
Ma severo e grave il corvo più non disse e stette come s’egli avesse messo tutta quanta l’anima in quel nome: sovra il busto, appollaiato — non parlò, non mosse più finché triste ebbi ripreso: «Altri amici m’han lasciato! il mattin non sarà giunto ch’egli pur m’avrà lasciato!».                           Disse allor: «Mai più! mai più!».
Scosso al motto ch’or sì bene s’era apposto al mio pensiere, «Certo, — dissi, — queste sillabe sono tutto il suo sapere! e chi a tale ritornello — l’addestrò, forse quaggiù sarà stato sì infelice ch’ogni canto suo più bello come un requiem, non aveva ogni canto suo più bello                           a finir che in un mai più!»
Ma un pensier folle ancor voltomi a un sorriso il labbro torvo: scivolai su un seggiolone fino in faccia al busto e al corvo, e qui, steso nel velluto — presi intento a studiar su cosa mai volesse dire quel ferale augel di Pluto, quel feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto                           col suo lugubre: «Mai più!».
Così assorto in fantasie stetti a lungo, e sempre intento all’augello i di cui sguardi mi riempivan di spavento, non osai più aprire labbro — sprofondato sempre giù fra i cuscini accarezzati dal chiaror di un candelabro fra i cuscini rossi ov’ella, al chiaror di un candelabro,                           non verrà a posar mai più!
Allor parvemi che a un tratto si svolgesse in aria, denso e arcan, come dal turibolo d’un angelo, un incenso. «O infelice, dissi, è l’ora! — e infin ecco la virtù e il nepente che imploravi per scordar la tua Lenora! Bevi, bevi il filtro e scorda! scorda alfin questa Lenora!»                           Mormorò l’augel: «Mai più!».
«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora! o l’Averno t’abbia inviato — o una raffica di bora t’abbia, naufrago, sbalzato — a cercar asil quaggiù, in quest’antro di sventure, di’ al meschino che t’implora, se qui c’è un incenso, un balsamo divino! egli t’implora!»                            Mormorò l’augel: «Mai più!».
«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora! per il ciel sovra noi teso, per l’Iddio che noi s’adora di’ a quest’anima se ancora — nel lontano Eden, lassù, potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora! a una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!»                            Mormorò l’augel: «Mai più!».
«Questo detto sia l’estremo, spettro o augello — urlai sperduto. Ti precipita nel nembo! torna ai baratri di Pluto! non lasciar piuma di sorta — qui a svelar chi fosti tu! lascia puro il mio dolore, lascia il busto e la mia porta! strappa il becco dal mio cuore! t’alza alfin da quella porta!»                            Disse il corvo: «Mai, mai più!»
E la bestia ognor proterva — tetra ognora, è sempre assorta sulla pallida Minerva — proprio sopra alla mia porta! Il suo sguardo sembra il guardo — d’un dimon che sogni, e giù sui tappeti il suo riflesso tesse un circolo maliardo, e il mio spirto, stretto all’ombra di quel circolo maliardo                            non potrà surger mai più!
Il Corvo - Edgar Allan Poe (1845)
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