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Ho rispetto per le vittime di ogni angolo del mondo e non sono uno di quelli che pensano che l'11 settembre sia nato dal caso, ma da una scellerata politica estera di imperialismo e sfruttamento da parte dell'occidente che ha creato quelle iniquità che poi vanno ad alimentare più o meno direttamente le menti folli di questo pianeta. Tutto il mio essere non voleva però cadere nelle facili polemiche o nelle menzogne del "hanno fischiato Obama" quando questo non è propriamente vero per chi ha visto le immagini delle commemorazioni del presidente statunitense. Ma io non sono qua né a celebrare un evento né a difendere bandiere. Solo qualche piccolo appunto sulle differenze tra l'11 settembre americano e l'11 settembre di ogni giorno nel terzo mondo lo volevo definire. Poi ho capito che sarebbe stato banale anche affrontare il tutto in questo modo. L'11 settembre è uno, e si ricorda per quello. Ha la sua logica come lo ha ricordare qualunque disastro, qualunque tragedia. James Cameron ha fatto incetta di Oscar con un banale film sul Titanic e, al momento di ritirare il premio, chiese un minuto di silenzio per le vittime del transatlantico. Nessuno ha pensato tanto a girare intorno a quella pantomima che suonava fuori luogo e fuori tempo massimo, ma ognuno sente nel proprio cuore quello che sente, e qualche vittima può essere più vicina di altre anche al solo scopo di scoprire e raccontare una storia piuttosto di un'altra.
Ho letto che dentro le torri sono morte persone di 70-90 paesi diversi e anche questo fa differenza rispetto a qualunque altra cosa avvenga fuori da questo undici settembre. Non è stato un incidente, non una tragedia casuale, è avvenuto in un posto che avrà anche tantissimi difetti ma è la cosa più simile al nostro concetto di democrazia, quello che viviamo e difendiamo ogni giorno. L'undici settembre ci ha messo di fronte alle nostre debolezze, ma anche al ricatto cui viviamo per il vizio dei potenti e all'idea che alcuni hanno del fanatismo, della politica, della religione, della vendetta. Dall'undici settembre non sono usciti eroi del nuovo millennio capaci di sollevare le masse nel nome di questo o quell'ideale ma solo tanta inutile sofferenza e tanto inutile disprezzo.
Non mi andava di parlare di vittime, eroi, immagini memorabili e ieri, nel mio piccolo, ho seguito ben poco quello che passava alla TV; uno speciale di Histroy Channel, drammatico e sconvolgente come solo quel giorno è riuscito ad essere nelle vite di ognuno di noi, e qualche collegamento da Ground Zero. Paul Simon che canta Sound of silence. E poi il silenzio. Non mi andava di parlare di vittime, prima, per non fare differenze, per non fingere di non sapere. Non mi va la demagogia di oggi, l'idea che parlare di NY significhi automaticamente dimenticare l'Afghanistan, il Nicaragua o la Somalia. Ma tirare in ballo queste cose proprio l'11 settembre non è meno ipocrita e fasullo. Tirare fuori l'asso nella manica per sentirsi di fatto superiori e più attenti alle sorti del pianeta è un boomerang che torna indietro e stacca la testa di tutti questi finti appassionati che ci sono in giro e che grazie ai social network amplificano la propria stupidità. Per carità, io accetto che ci possa essere chi ha più a cuore una causa piuttosto di un'altra, che sente più a vicino a sé una vittima francese piuttosto che una guatemalteca. Ma non sopporto l'esibizione di questo e lo sbandierare certi concetti con aria superiore. Secondo il teorema del rispetto per il terzo mondo non dovremmo più nemmeno commemorare le vittime della seconda guerra mondiale, partigiani e alleati, ebrei e dissidenti, dilaniati dalla follia ormai tantissimi anni fa, poco attuali e certamente non al pari, oggi, dei contemporanei dispiaceri somali.
Eppure dietro la fogna della Somalia, così come dietro quella del Ruanda, ci siamo noi, coi nostri atteggiamenti e le nostre vite più o meno inconsapevoli, noi occidentali che qualcosa potremmo fare e che non facciamo mai. Noi con le nostre imperfette democrazie e con il consumismo da strapazzo, noi con i nostri computer di plastica dai quali lanciamo la rivoluzione, noi coi nostri telefoni cellulari. Noi che ogni volta che dimentichiamo una luce accesa ammazziamo un somalo, ogni volta che buttiamo via del cibo uccidiamo 10 ruandesi. Noi, che parliamo di giustizia ma pensiamo di poterne costruire ogni giorno una a nostra misura. Dovremmo ascoltare il suono del silenzio, a volte, e capire che quell'attacco, comunque sia andato, qualunque idea lo abbia orchestrato, ha colpito anche le speranze di un mondo diverso e migliore. Ha colpito in casa nostra perché volenti o nolenti noi apparteniamo più a quel mondo che ad altri, ed ha colpito le speranze di pace. Che poi ogni delitto, ogni attentato, sia figlio di infiniti atteggiamenti errati e pregiudizi non è un discorso che scopriamo oggi. Che l'11 settembre sia una data in cui si ricorda quanto avvenuto in quel giorno, dal golpe in Cile agli attacchi di Al Qaeda, non dovrebbe sorprendere. Che l'11 settembre ci si ricordi di cosa è accaduto alle nostre generazioni nemmeno. Che qualcuno ricordi baristi, impiegati, turisti, addetti alle pulizie, guardiani o pompieri, gente morta sul lavoro che nulla ha a che fare con le beghe dei più grandi non può sorpendere. O deludere. O essere benzina per il fuoco della polemica e del qualunquismo.
Che quel giorno sia stata violentata una città che mi ha lasciato qualcosa di grande dentro, senza che debba per forza volerci vivere o trovare un lato necessariamente positivo in tutto non è un problema di politica, vittime o guerre. E' solo il sentimento per qualcosa che si ama, indistintamente da ogni pensiero razionale che possiate fare. Un'utopia magari, un'immagine che vi è rimasta impressa nel cuore. Un'amante che non potete conquistare. Il cuore pulsante del mondo ferito a morte. Ferito per sempre. A volte rimanere in silenzio è il miglior modo per dire qualcosa.
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