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There and back again

Creato il 07 dicembre 2012 da Bagaidecomm @BagaideComm
THERE AND BACK AGAIN"In a hole in the ground there lived a hobbit ..." così inizia un capolavoro della narrativa per ragazzi, il capostipite della letteratura fantasy, l'antefatto della trilogia più epica del XX secolo (non me ne vogliano Lucas, Zemeckis e Leone). Tra meno di una settimana uscirà nelle sale l'ultima impresa di Peter Jackson, regista neozelandese detentore di 3 premi Oscar e padre della serie cinematografica (e della pellicola) più premiata della storia degli Academy Awards ( 17 statuette di cui 11 al film record “Il ritorno del re”). "The Hobbit: An Unexpected Journey", titolo originale dell’opera, sarà il primo di tre lungometraggi basati sul racconto pubblicato dal Professor Tolkien nel 1937, prequel de “Il Signore degli Anelli”. Le trasposizioni cinematografiche di Sir Jackson (dal 2010 è infatti Knight Companion of the New Zealand Order of Merit), pur discostandosi a volte dal testo originale, non hanno mai lasciato insoddisfatti i fan tolkeniani ma anzi sono riuscite a rendere reale l’immaginazione dei lettori: la Terra di Mezzo è veramente rinata nelle isole della sua Nuova Zelanda. Parlando invece di “The Hobbit”, mi piacerebbe fare un parallelismo con un interessantissimo libro di antropologia su cui ho potuto mettere le mani grazie ad un estimatore del popolo di Albione: un libro che cerca di ritrovare la grammatica dell’englishness, ovvero le caratteristiche tipiche dei sudditi di Sua Maestà. Non si può fare a meno di notare che gli hobbit dei racconti di J.R.R. Tolkien incarnino le qualità e i difetti dell’englishman meglio di quanto non facciano gli stessi uomini di Gondor o gli Eorlingas. Quella che C.S. Lewis (autore de “Le Cronache di Narnia” e grande amico di Tolkien a cui per primo fu permesso di leggere il manoscritto dell’opera) definisce hobbitry viene messa in contrapposizione con il concetto di epicità che pur contraddistingue gli scritti del professore oxfordiano, ma è più lontano dal mondo del lettore, che invece riesce ad immedesimarsi più facilmente nel punto di vista dei mezz’uomini; chi legge è proprio come Bilbo una persona semplice che viene spinta nei luoghi dell’avventura dal libro stesso. Dice ancora Lewis: "... è come se si sentisse che non sta inventando ma semplicemente descrivendo...". Se il signor Baggins agli occhi del suo autore deve rappresentare l’uomo comune, allora non potrà che essere l’inglese comune, con la sua predisposizione/predilezione/ossessione per la cortesia, la libertà personale, la convivialità (leggi bere e mangiare), l’eccentricità e lo humor (stereotipi che difficilmente gli antropologi riescono a smentire e che anzi sono alla base delle loro ricerche). C’è una scena paradigmatica di questa similitudine (e tra le mie preferite): l’arrivo dei nani a Bag End, dove si vede Bilbo che accoglie in casa questa banda di sconosciuti che in poco tempo gli svuotano la dispensa e il tutto mentre si profonde in tutte le cortesie di un buon padrone di casa e contemporaneamente borbotta a più non posso contro se stesso per il caos che gli indesiderati ospiti portano nella sua casa oltre che nella sua vita. In conclusione, prima del film non posso che consigliare una lettura (per i neofiti) o rilettura del libro, meglio se in lingua, che si fa apprezzare per gli ambienti, le sensazioni, le atmosfere che riesce a trasmettere.
Jacopo Borghi

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