Pubblicato da giovanniag su aprile 19, 2012
di Saverio Bafaro
Tomas Tranströmer (da Wikipedia)
Poeta, psicologo e pianista, Tomas Tranströmer è l’ultimo Premio Nobel per la letteratura. L’Accademia di Svezia ha riconosciuto il merito al proprio compatriota perché «attraverso le sue immagini dense, limpide, offre un nuovo accesso alla realtà».
Tema centrale di tutta la sua poetica è senza dubbio il Silenzio. Dimensione fondativa e generativa, profonda meditazione agglutinatasi a partire da echi biblici (non è secondario ricordare la sua traduzione del Salterio) e passata attraverso molteplici influssi di cui solo i principali sono: i classici, i mistici medievali, i romantici, i simbolisti, i surrealisti, fino ad approdare alla lirica giapponese.
Il Silenzio è immagine ripetuta e sviscerata, ossessione pervasiva e creatrice, fuoco che ha la facoltà di mettere in relazione l’esteriore con l’interiore, motore che regola ogni movimento di partenza e di approdo della sua magnifica parabola artistica e umana. Da ormai 21 anni affronta un ictus che ne ha compromesso la motricità e la parola orale, consegnandolo ad uno strano caso in cui il pensiero espresso nelle sue pagine è consustanziale a quello che concretamente vive.
Per quanto sarebbe sbagliato adottare l’espressione di “sentimento religioso” propriamente detto, troviamo nelle opere poetiche di questo autore delle indagini che investono così a fondo la riflessione umana da far pensare a qualcosa che molto vi si avvicina, perlomeno per l’intensità degli intenti. Come leggiamo nei versi conclusivi di Carillon «il grande sconosciuto di cui sono una parte e che è / certo più importante di me. // Fuori passa la strada pedonale, la strada dove i miei passi muoiono/ e così lo scritto, la mia prefazione al silenzio, / il mio salmo alla rovescia.» (pagina 161, Poesia dal silenzio, Crocetti).
Poeta ma anche musicista, introducevo. Rispetto a queste due facce il Silenzio si configura secondo due sostanziali possibilità: da una parte è ‘prima’ e ‘dopo’ la parola, spazio bianco e cornice sapienziale che dà il via ad un moto discendente nell’Io, e dall’altra è ritmo che rende possibile lo spartito. Esiste una sorta di gerarchia tra quelle che sono le parole umane e quello che è il suono. Solo quest’ultimo scavalca e assurge ad una sfera di livello superiore: il suono nella sua purezza, ancor di più della musica convenzionale che ne è approssimazione; il suono naturale (ricorrente è, infatti, nei componimenti, il canto degli uccelli) compensa la spaccatura primordiale della lingua, la sua ‘separatezza da’.
Una voce ammonitrice fatta di linearità, frasi affermative ed elementi connettivi ridotti al minimo dichiara il suo intento esplicito di lottare contro il “luogo comune”, contro la retorica quotidiana da scacciare drammaticamente, da allontanare con sdegno e sospetto perché portatrice di abitualità e passività nelle menti. Come frutto di questo doloroso allontanamento rimane – per sottrazione – il linguaggio lirico; linguaggio che, conscio del suo limite, fa proprio di esso l’oggetto della propria tematizzazione, per giustificare il suo sforzo di apportare contenuto innovativo.
Era dalla stagione post-simbolista e con esiti diversi e più prolifici – in quanto arricchiti da una riflessione ‘globale’ dell’esperienza del fare poesia – che un autore non lavorava così arditamente sulla metafora. Quelle di Tranströmer sono immagini vischiose, dense come vernice, a tratti fortemente psichedeliche. Tutto diviene indugio sulla metafora, metafora tesa all’estremo, in quel punto felice in cui l’elastico dona il massimo potenziale di forze senza denaturarsi o decadere in effetti contrari. Il ragionamento lirico diviene, così, macro-metafora, ponte tra due abissi che trovano collegamento tra loro, elemento ‘al limite’ tra il reale e il surreale.
Grande merito in questo è da riconoscere all’attività che regola i principi sottostanti alla traduzione linguistica, attività che ha coinvolto attivamente il poeta svedese, impostando in lui una sorta di “premura relativistica” nelle modalità con cui si offre ad un lettore “ampliato”, multietnico, dotato perciò di soluzioni di rappresentazione anche molto diverse (si ricordi che è stato tradotto in più di 50 paesi!).
La consegna del Nobel (da society.ezinemark.com)
Nello spazio generato dal verso si apre un “luogo d’incontro” per i lettori, l’apertura per quell’immaginario spesso chiuso a chiave che ha bisogno di prendere forma a partire dall’immagine rivissuta e interiorizzata all’interno delle pareti unitarie della vita di colui o colei che ne sorbisce i benefici. Tali benefici sono la comprensione del qui ed ora, avvenuta solo dopo aver intrapreso un grandioso Viaggio: un percorso che, sospendendo il giudizio immediato, concentra l’energia co-prodotta dai cinque sensi e dall’intelletto al fine di sprigionarla in una visione circolare e onnicomprensiva, benché partita da un solo dettaglio della scena (a rendere bene l’idea del mistero a cui si assiste, si trova infatti la frequente immagine del “caleidoscopio”).
In un Universo sempre dinamico, in cui a giocare sono un agglomerato di monadi dalla struttura sferica, coinvolte in movimenti nomadi, si apre la libertà individuale fatta di continui ritorni e ripensamenti. Nei punti di congiuntura – sempre transitori – tra spazio e tempo, vita e morte si aprono dei varchi per cogliere, in quegli istanti illuminati, ciò che si reputa vero.
È il rigore, la compostezza, la primordialità di un quadro che ritrae un paesaggio baltico, a far rimanere sempre saldo il legame con il reale, il legame con l’oggetto di volta in volta messo in luce, anche quando i passaggi descritti sono più vertiginosi e sublimi o gli intenti sembrano diventare più escatologici, anche quando la fantasia è completamente attivata. Si manifesta, infine, una fusione istantanea ma fortissima con il Tutto.
Come il Cuculus canorus, Tranströmer ha viaggiato dalla Svezia ai Tropici per poi tornare di nuovo a casa. Ora, seduto sulla sua sedia a rotelle, capelli canuti e sguardo profondo, continua a sognare da fermo, dettando qualche altra splendida memoria alla sua invidiabile penna. E magari, guardando ancora una volta fuori dalla finestra, si ricorderà di questa sua poesia che ha per titolo Dal marzo ’79, a noi dedicata per far tesoro della sua missione: « Stanco di chi non offre che parole, parole senza lingua/ sono andato sull’isola coperta di neve. / Non ha parole il deserto. / Le pagine bianche dilagano ovunque! / Scopro orme di capriolo sulla neve. / Lingua senza parole.»
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Saverio Bafaro (Cosenza, 1982), laureato in Psicologia dello Sviluppo, dell’Educazione e del Benessere, è un giovane poeta, autore , tra le altre cose, di Lunario di poesia 2006 (Edizioni del Giano, 2005) e di Poesie alla madre (Calabria Letteraria Editrice – Rubbettino, 2007), una raccolta di liriche ispirate e indirizzate alla figura materna, con la prefazione di Antonio Veneziani. Sue opere sono apparse sulla rubrica poetica a cura di Maurizio Cucchi, ne “Lo Specchio” de “La Stampa”.