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Tra i fermenti di “Fermenti” n. 237/2011

Creato il 23 novembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da francesco sasso su novembre 23, 2011

Tra i fermenti di “Fermenti” n. 237/2011
di Antonino Contiliano

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Iniziare e portare a termine un lavoro di recensione per questo numero della rivista FERMENTI n. 237/2011, crea, si dice apertamente, dei timori per la ricchezza che porta e per gli stimoli a pensare che suggerisce. Chi scrive altresì vi è coinvolto in prima persona per ciò che di proprio FERMENTI n. 237 gli ospita, e la cosa non è certo trascurabile.

Su cosa e chi puntare e, nel cercare anche una linea geodetica credibile di connessione e “tendenza”, non scompaginare molto l’insieme del lavoro strutturato in sezioni e dei lavori che dentro portano firme, stili di pensiero e appigli differenziati?

L’altalena delle titubanze non ostacola tuttavia la ricerca e l’individuazione di questa linea interpretativa e di lettura di cui diremo avanti.

Il fatto è che lo spessore dei testi – che formano questo numero – è tale, e di respiro così tendenzioso per argomentazioni particolari e presupposti scelti, che la consapevole e unitaria posizione conflittuale e critica, che di là si stacca e attacca l’irresponsabile omologazione del presente e delle sue diramazioni, avrebbe bisogno di ben altre mani intellettuali di chi scrive, visto (il presente) che è così avvitato su se stesso e nello stesso così paradossale come ci dice la dimensione del suo essere anche realtà virtuale.

È quel presente che – come scrive, in uno dei suoi aforismi, V. Carratoni (p. 205) – è “talmente onnipresente” da aver “ucciso il futuro”; ed è ancora qui, in questo drammatico accumulo del tempo e del tempo storico, che gli scritti del nostro periodico FERMENTI n. 237 saggiano, che nascono la titubanza e il dubbio (di chi scrive). Sono gli interrogativi sulla qualità di quello che si può scrivere interagendo con i testi degli autori che si leggono fra le righe e non.

Eppure, nello stesso tempo, non possiamo non sentire una certa soddisfazione per esserne parte-cipe (la rivista ospita alcuni nostri saggi e delle poesie nelle rispettive sezioni) come autore siciliano e, forse, neanche “sesto tra cotanto senno” (l’autoironia non guasta mai!).

Appresso, ora, qualche altra considerazione, si spera, di maggior interesse e importanza oggettiva per la consistenza delle varie scritture che formano la rivista.

Sono le scritture che – dalle considerazioni sul “Salone del libro di Torino: alcune domande” di Gabriele Sabatini (che insieme alla “logica di mercato”, e al “basta pagare” per essere presenti al Lingotto, annota anche il merito dei “progetti che hanno animato il Salone proponendosi di fare cultura”, pp. 5,7), al “Bloc notes” di Gualberto Alvino, a “Mala tempora” di Abelardo, alla presenza di Domenico Cara e del suo intervento “L’inferno di Kubin” (che visita anticipandoci il giro tra “Scene irose di un febbrile simbolismo”, “Le soluzioni barocche e le ipotesi terrestri”, “Strati del negativo dissoluti e oltraggi”, pp. 115-118), etc. – incrociano come in un serrato e ravvicinato spazio che lascia pensare a pagine di confronto, di dialogo e di intesa consonante i linguaggi delle diverse e acute riflessioni tematiche che animano le stesse sezioni (“saggistica, narrativa, arte, cinema, fotografia… recuperi, costume… etc.” ) di questo numero 237 della rivista.

Certo è che i fermenti che lievitano questo volume di Fermenti n. 237, nell’attuale tessuto italiano piuttosto inclinato alle bassezze e dedito a faccende di debito e crediti, non si possono ignorare per gli effetti di rilevanza e di incidenza che, crediamo, si riversano/riverseranno nel tessuto in cui ci muoviamo.

Effetti che destabilizzano, fortunatamente, l’andazzo culturale e politico del consenso amministrato e propendono nettamente per una intelligenza critica che, impegnata in direzioni di cambio di bussola (e ciò sia che l’azione tocchi il termometro politico che quello delle lettere, dell’arte e della scienza, degli assetti editoriali, etc.), si accompagna con soggetti che non amano certo il silenzio complice o l’azione fiancheggiatrice.

In questo nuovo numero della rivista siamo così in strada con “fermenti” e compagni di nerbo e in una compagine che annovera tanti intellettuali (e scrittori di valore) non siciliani (vecchi, giovani, morti, vivi, da recuperare, etc.), e anche di altri siciliani come: il poeta palermitano (non più tra i vivi) Pietro Terminelli (figura che attende “qualche segno di rientro in orbita”, e poeta che ha fatto anche la storia dell’Antigruppo siciliano) e di cui, in “mala tempora”, ci dice Abelardo (p. 431); il pittore petrosileno (ormai mazarese d’adozione) Giacomo Cuttone della cui opera artistica scriviamo personalmente tra “funzione quadro” e “allegoria differenziale” inframmezzando il discorso con la visualizzazione di alcune fra le opere dello stesso pittore (in compagnia, nella sezione arte, fra gli altri, di poeti e artisti come Tomaso Binga e le sue due creazioni “Composizione”); i diversi poeti siciliani e non siciliani, che – sine nomine – hanno contribuito all’esperimento poetico del testo collettivo “We are winning win” del Soggetto collettivo “Noi Rebeldìa 2010”, e che ora come in un resoconto di chiusura (questa volta i nomi di tutti i poeti sono resi noti) cui Fermenti n. 237 ha dato visibilità e a firma di scrive; il poeta trapanese Marco Scalabrino di cui si occupa Gualtiero De Santi con una analisi del “suo parlar franco” e a proposito del pregevole libro di poesie “La casa viola” del poeta trapanese.

Ma di questo poeta trapanese, di cui il De Santi ha annotato opportunamente i rilievi che ne qualificano/innovano lo stile e la lingua (siciliana), appresso, riporteremo, accompagnando anche qualche breve e semplice nostra nota, anche stralcio del testo poetico “C’è…” (incluso ne La Casa viola) sia nella versione originale che nella “traduzione” italiana di Flora Restivo. Dei testi del poeta, nella stessa edizione, infatti, ci sono traduzioni anche in altre lingue.

Scalabrino, scrive il saggista G. De Santi, notandone l’“interlinguismo”, “È un poeta dai tratti peculiari, in primisis quelli della lingua espressiva che utilizza, un neo-volgare siciliano… una lingua di colore che è del pari la lingua dell’arte visiva… si sospinge una componente quasi plastica”, p. 97), così come la traduzione dei suoi testi in altre lingue è l’esercizio di una “specialissima interculturalità”.

Ma è altresì vero che ne “La casa viola”, e secondo la nostra semplice percezione e breve enunciazione, senza perdere niente dell’aseità semantica poetica propria al linguaggio del poiein, la poesia di Marco respira pure l’aria calda di quel particolare “impegno” etico-culturale e politico che ne alza i gradi al termometro metapoetico delle varie “guerre” che si giocano in Europa. Ed è quel ritmo-compositivo aseico che nella poesia “C’è…” si presenta – come ci sembra – con perspicacia e competenza costruttiva sia lì dove l’anaforico “essere” del “C’è…” (una anafora che fra l’altro presiede alla tenuta della coerenza semantica dell’intero discorso del testo) è lasciato polisemanticamente anche nell’accezione dell’“esistere” topologico di una situazione che ci inchioda a un dramma, sia dove l’asindeto sintattico-espressivo anima certi versi sottolineandosi come enumerazione o accumulo nominale:

“C’è tanfu di morti e scrusciu di guerra. // C’è in giru arrè pi st’Europa lasca / crozzi abbirmati cu li manu all’aria. // C’è surci di cunnuttu assimpicati / chi abbentanu, ogni notti di cristallu, / li picca l’esuli l’emarginati. / [...] // C’è catervi di cazzi di scardari / – droga travagghiu paci libirtà / giustizia malatia puvirtà…” (C’è…, in La casa viola, p. 51); “C’è lezzo di morte e brontolio di guerra // C’è ancora in quest’Europa lacerata / scheletriche braccia / le falangi contorte alzate al cielo, / le orbite ridotte vermicaio. / C’è topi di fogna assatanati / che azzannano / in notti di cristallo rosso-sangue / i deboli, i reietti, i senza-voce. // C’è cataste di rogne da grattare / – droga, lavoro, pace, libertà / giustizia, malattia, povertà…” (la “traduzione” di “C’è…”, in italiano, è della poetessa trapanese Flora Restivo).

Ora, in questo squadernarsi dei “fermenti” di Fermenti/237, ci si sente come una molla carica e in pressione, per richiamarci alla felice immagine del “Diavolo a Molla”, l’antologia poetica curata, per gli stessi tipi di Fermenti editrice, dall’amico, poeta e critico, Donato Di Stasi (così attento come sempre). Ma Donato Di Stasi è presente, con la solita acutezza critico-linguistica che lo distingue, anche in questo numero del periodico con testi recensivi dedicati a Ruggero Jacobbi (Quaderno brasiliano), Marco Lazzerini (Dalla parola al silenzio) e Velso Mucci (Tempo e mare).

E l’adrenalina non fa che salire; e rinforza ancora la tensione della carica allorquando, come siciliano e meridionale, vediamo fra le pagine della rivista ricordare il nome e l’operare di Giuliano Manacorda e Cesare Zavattini. Due personaggi e intellettuali di prestigio cioè che non hanno disdegnato di frequentare la nostra terra, la Sicilia. Di Giuliano Manacorda parla Antonella Calzolari (ne ha parlato anche nel n. 236). Di Cesare Zavattini parla Gualtiero De Santi.

Qui, per inciso, ci piace ricordare di aver conosciuto e frequentato Giuliano Manacorda (cui peraltro mi legava anche un certo rapporto personale e qualche scambio epistolare) durante il periodo degli “Incontri fra i popoli del Mediterraneo” organizzati a Mazara del Vallo negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e per opera del poeta dell’Antigruppo siciliano Rolando Certa.

Ma la cosa principale è il fatto che G. Manacorda fu in contatto continuo con il movimento poetico dell’“Antigruppo siciliano” e la sua ala trapanese (e non solo), il gruppo che ci ha dato il battesimo di apprendista costruttore di testi poetici.

E come non ricordare che pure Cesare Zavattini fu in contatto con l’“Antigruppo siciliano”. E, nel caso, come non ricordare pure il testo che Santo Calì (scomparso prematuramente e fondatore, insieme a Nat Scammacca, Gianni Diecidue, Crescenzio Cane e Rolando Certa dell’“Antigruppo siciliano”) dedico a Zav. È il testo che ha scritto pensando a Zav come interlocutore e compagno di comune dissacrazione vs un costume italiano tutto clerico-fascista, servile e reazionario padronale; è il testo, quasi una lettera, che rivolta a Cesare Zavattini, e focalizzata sulla poesia e la poetica della FICA di Zav (così magistralmente interpreta dal De Santi in questo numero 237 di Fermenti!), poi è usato pure a mo’ di presentazione dell’antologico “Antigruppo 73” (Vol. II).

Caro Zav, vi si legge (scrive Calì), il libro antigruppo 73 “non è un libro di cultura, decisamente. [...] A scuola ti costringono a parlare la lingua del padronato; l’eloquio di Dante, Petrarca… soprattutto Manzoni. La grammatica [...], fonemi, stilemi, [...] ti folgorano [...]. Sino al punto da farti vergognare ad esprimerti nel dialetto succhiato, insieme al latte, al seno di tua madre. Ti suggestionano e ti plagiano, ti stordiscono. A questo punto, però, uno scrittore che fa? Se si chiama Zavattini, scrive un non libro perché FICA sovrasta la vita e, cosi ficata, la vita esplode nella violenza della sua verità quotidiana [...] Credimi, Zav: siamo perfettamente d’accordo. [...] Per questo ancora sostengo: antigruppo 73 non è un libro di cultura. Ma, in fondo, chi può mai dire in che consiste la cultura? Il mio trisavolo Puddittu Calì non aveva un fazzoleto di terra da coltivare, ma insisteva nel dire che tra culti e inculti se corrono insulti ci corron per tutti”.

Ora, e come uomini del Sud, in questo contesto così motivante per scambi e riscontri offertici da Fermenti n. 237, non si può non dire che il contatto culturale-letterario e artistico, in generale, tra la ricerca intellettuale romana e siciliana, grazie anche alla lungimiranza di FERMENTI, non continui ancora oggi. L’invito al recupero di Pietro Terminelli e l’attenzione a Scalabrino, solo per citare due casi fra gli altri, sono lì a testimoniare che i contatti non sono venuti meno. E a non dilungarci, ci piace ricordare anche la recente partecipazione, insieme a poeti siciliani, anconetani, sardi, bolognesi, fiorentini…, dei romani M. Lunetta, F. Muzzioli, M.T. Ciammaruconi, M. Palladini, T. Binga al testo collettivo “We are winning win” (già citato avanti) e il nostro stesso intervento recensivo sulla “parodia rossa” di F. Muzzioli (in una con il lavoro di Nevio Gambula, “Qui si vende storia”), e inserito nella sezione saggistica di Fermenti/237.

Ma dalla lettura degli scritti di questo numero abbiamo anche maturato (diremo più avanti) il pensiero che ci ha occupato fin dall’“Anteprima” e fino alle indicazioni contenute nell’“Inserto Fondazione Piazzolla”.

E il pensiero che non ha mollato di un attimo la presa. Con lampi percettivi netti e indubitabili è quello che ci si raffigura nell’immagine congetturale di un Soggetto collettivo.

È il “Soggetto” non individuale, né individualistico, beninteso, che però opera come una generalità consapevole privilegiando, per ora, il piano dell’astrazione intellettuale con un taglio politico-culturale netto di letterarietà e artisticità critica. Una vena di pensiero chiara che rifiuta le omologazioni, le canonizzazioni e prende distanze rispetto alle tante cose del rischio che il tempo (presente) e il chiacchiericcio torbido (specie fra le pieghe della dittatura dell’emozione twitter e del sentire senza passione) ci para davanti.

Ma è anche il momento in cui questo soggetto, a partire dalla consapevolezza del processo storico determinato, rimanda l’astrazione stessa al sostrato materiale della storia e della situazione culturale-politica complessiva, e in ebollizione e ribellione, cui non ci si può sottrarre.

Bisogna prendere posizione!

E che tale presa di posizione sia presente, come se fosse un segreto accordo che attraversa tutti i pensieri e le riflessioni degli scrittori, balza, per esempio, sia dagli “aforismi visivi” di Silvana Baroni, sia da quelli verbali dello stesso Velio Carratoni, compreso il testo narrativo “La protezione del male” dello stesso Carratoni, sia nelle altre pagine narrative di Giorgio Biuso “Mariage au musée”, quanto fra le righe e gli acidi salutari di “Mala tempora” (Abelardo) sferrati contro i soliti “Sgarbi”, le “ Cricche sempre cricche”, i “Poeti dell’Italia in secessione”…, o negli stessi scritti – “Riflessioni sulla cultura” (inedito) e “Surrealtà di Picasso” – di Marino Piazzolla, o ancora nell’attacco alla patologia dei politici (che si sentono dio in terra) uscito dalla mano di Giovanni Baldacci con il suo “L’inattuale attuale. Riflessioni sul leaderismo patologico” (p. 15), e ancora nella sezione “Riproposte” – e a cura di Maurizio Spatola – dove Fermenti n. 237 pubblica l’intervento “ Responsabilità e libertà” (p. 334) di Adriano Spatola. Un articolo, questo, che Adriano aveva pubblicato nel 1961 sul mensile di cultura “Cenobio”. Una riflessione, questa (di Adriano Spatola), che entrava, interloquendo con Carlo Bo, nel dibattito intorno ai problemi etici e della libertà tra esistenzialismo (Heidegger, Sartre, Abbagnano) e marxismo.

Ma l’incipit, cui seguono tutti gli altri interventi, quasi un incremento analitico ed esplicativo – come se ci trovassimo in un modello more “autopoiesi” – di pari dignità, complementarietà ed entro una atmosfera da “Facoltà del giudizio” (Kant), rivolta a coniugare estetica e politica, ci sembra (e senza incertezze) essere il taglio del saggio di Flavio Ermini “Prendere partito. La parola della liberazione” che si apre nella sezione “Anteprima”.

Un saggio che respirando Heidegger e il rifiuto della comunicazione spettacolare arriva fino alla “parola rivoluzionaria…pensata non come un rapporto sulle sensazioni, ma… Come scrive Guy Debord, ‘si tratta di produrre noi stessi’.” (p. 11).

Così entra in campo anche la categoria della “produzione”; la particolare produzione che oltre ad investire di sé la letteratura, la poesia l’arte, investe anche (come già scritto da K. Marx) la produzione dell’uomo mediante l’uomo.

Ma (per limiti che ci riguardano) fermiamo qui il passo per sbirciare con qualche altro sguardo curioso, si spera non inadeguato, fra la densità delle spaziature del saggio di Flavio Ermini. Sostiamo a spiare qualche passaggio interpretativo che – come a difendere la chiave di lettura assunta nello spaginare la topologia di questo numero del periodico – potremmo sintetizzare come attacco al “presente” senza passato e senza futuro. Una omologazione cioè senza memoria (anche dei fallimenti rivoluzionari che, comunque, sono spartiacque e soglia di ipotesi che non chiudono mai le porte alle possibilità).

C’è nel lavoro un precisa e chiara volontà dell’intelligere teorico e pratico del/nel “disinteresse interessato” che, nella soglia del linguaggio poetico e dell’“estetica della liberazione” (p. 9) decide il prendere la “distanza” dalle irrisolte contraddizioni dell’esistente sapendo anche che la letteratura ha sempre un certo rapporto con la realtà. L’ azione est-etica è così pure culturale e politica.

Ermini scrive che l’azione “prevede l’estinzione dello stato di cose esistente”. E se l’azione, in quanto relazione, è agire e co-agire nel mondo e nel contesto in cui viviamo, allora deve essere organizzata insieme agli altri e, in questa nuova soggettività collettiva politico-culturale e plurale, farle imboccare la “via estetica della liberazione” per i sentieri della prassi concreta o praxis che avvii rotture come eventi inaugurali.

Il compito dell’abitare questa funzione est-etica, infatti, precisa l’autore, “non deve essere solo un programma, ma anche una prassi” (p. 8) e una scrittura “che aiutino la gente come noi a familiarizzare con tutto ciò che è arbitrario, impenetrabile, dissonante, sconcertante” (p. 11). Una scelta e una azione che si facciano carico di una resistenza che smantelli lo stato di mistificazione in cui regna la comunicazione embedded e che, in epoca di dominio e di egemonia del neoliberismo capitalistico (che mette al lavoro e agli ordini del “valore” e del profitto privati la biopolitica e i linguaggi), è amministrata dai mass-media del consenso colluso. Per cui i “fratelli” (parola che richiama il passaparola delle lotte dei “neri” del mondo) sappino che “la via estetica della liberazione porta a sottrarci alla scena insopportabilmente illuminata dei mass media e a concepire il linguaggio non solo come ‘mezzo’, oltre a non concepire noi stessi solo come spettatori, ma come soggetti criticamente capaci di intervenire sulla realtà. [...] Fratelli bisogna conquistare integralmente la realtà, se si vuole che l’immaginazione prenda il volo [...] che è la via della liberazione. Ecco la rivoluzione culturale a cui ci invita la lotta contro il neoliberismo e la globalizzazione. Contro una società che trasforma la parola in merce. E la rende servile.” (pp. 11, 14).

E così, crediamo, che questa via della critica conflittuale e disalienante, antagonista quanto giustamente erosiva delle acquiescenze, dei silenzi conniventi o delle formattazioni – che colonizzano l’autonomia intellettuale e il “senso” della/e parola/e, dei testi e dell’azione del linguaggio letterario-poetico e artistico – sia quella corrente a spinta sotterranea e palese che, all’insaputa degli stessi autori (che certamente hanno scritto l’uno separato dall’altro), fa convergere gli interventi (presenti nel corpo della rivista) nello stesso orientamento. È quella linea comune che dà vita, crediamo, a quel “Soggetto collettivo” che poi si incorpora nella singolarità personale e scritturale di ciascun autore secondo una strategia di “estraniamento”, la quale potrebbe essere un proseguimento (in un altro teatro) di quella che ha inaugurato Bertolt Brecht.

E qui, per qualche altro luogo del volume dove vive la “rabbia radioattiva” poetica o altro della eterotopia della poiesis (produzione) altrui, avviandoci a chiudere, proponiamo al lettore qualche altra estrapolazione per cenni e salti in funzione dell’estensione della linea che, crediamo, accomuni i nostri scrittori, e al contempo predicato “glorioso” per FERMENTI e il suo n.237/2011.

Così è, ci pare, anche per la sezione poetica e solo ad esempio (ma si potrebbe continuare con gli altri) indichiamo qualche scheggia:

di Mario Lunetta:

“Gli chiesi di parlarmi di questo calderone / di barche matte di quest’oceano ch’è poi solo / un acquitrino che si alimenta di sangre e di sangria / e schiatta di rumori nei suoi intestini arrostiti. // [...] / Dicesti anche quella sera di pioggia sorseggiando / [...] / la pensavi come Becktt: ‘ Non mi hanno mai interessato / i vincitori ma i vinti, perché da questi ultimi / si può imparare qualcosa’.” (Calderone di barche, pp. 282-283);

di Marco Palladini:

“Tra G8 e G20, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale / non occorre andare molto lontano per capire chi prende / le misure di governante e tecniche del tutto funzionali / a confermare e a protrarre lo scambio ineguale e il dominio imperiale…/ La gioia tragica e la distruzione felice / [...] / sugli indigenti a miliardi che popolano il pianeta / [...]”.(Palladini, In Linea d’ombra, p. 315);

di Raffaele Piazza:

“Telegiornale, schermo Internet in casa Verde / Gianni, Marisa e Giacomo e Maria, / gliamati e non voluti figli. Selva sonora / [...] / barrette per felici momenti. Guerra in Libia / da parlarne a cena i bimbi ridono e là sono morti / in molti. Italia di pace e dell’inno nazionale / stasera di calcio una partita sullo stesso / visore del sangue.” (Piazza, Famiglia italiana ai tempi della guerra in Libia, p. 327);

di Gualberto Alvino:

“we are not dogs no nenti here / vivi mali cca non so no capisi talian beni / fa barbere macela agneli big trouble ici / problema lavori tanta problems / racoli arangi venti iuro / maximum twentyfive iurnata pochissima / non poso parli entre nous sinò cacci / sometimes we sing chiane chiane / [...]” (Domidiana road, p. 304).

Di Gualberto Alvino, inoltre, il sipario irato e prezioso dell’assalto (con il suo “Bloc notes” ironico ed elegante) al Berardinelli che non capisce è altro pezzo del mosaico, così come la forte immagine che Lunetta traccia del poeta Gian Pietro Lucini.

Lucini, scrive Mario Lunetta, è “un’anarchia in cerca di sintesi [...] nostro contemporaneo” che insegna a “far giusto … uso delle parole. A misurarsi senza timidezze col proprio tempo. A produrre pensiero e immagini complesse, in perpetua interrogazione del reale e dell’utopia. A dare risposte nette, mai paghe di sé una volta per tutte. A praticare nella scrittura l’arte come arte della libertà” (p. 79).

 


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