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Tra “neo-ottomanesimo” e “neo-atlantismo”. Dove va la Turchia?

Creato il 03 febbraio 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Tra “neo-ottomanesimo” e “neo-atlantismo”. Dove va la Turchia?

L’espressione neo-ottomanesimo ha riscosso grande fortuna negli ultimi anni, ad indicare il deciso attivismo della politica estera turca nell’area che fu di pertinenza ottomana; ruolo ritrovato sotto la guida politica del partito Akp – al potere dal 2002 – e che ha come imprescindibili figure di riferimento il premier Erdoğan, il ministro degli esteri Davutoğlu ed in parte il presidente della Repubblica Gül.

Alcuni significativi segnali di tale politica nel recente passato sono stati l’impegno diplomatico nel Balcani, i tentativi di distensione con l’Armenia, l’ostilità verso Israele a partire dalla questione palestinese, la ricerca di mediazione sulla questione nucleare iraniana; idealmente, una rinnovata politica estera – di cui questi ed altri costituiscono interessanti esempi – trova origine nel 2003, con il divieto da parte del Parlamento turco di permettere l’uso di basi militari sul proprio suolo per la guerra in Iraq.

‘Neo-ottomanesimo’ in fase terminale?

Il cosiddetto neo-ottomanesimo ha costituito per il blocco occidentale una fonte di preoccupazione crescente, di pari passo con i margini di autonomia e disallineamento che la Turchia si è andata ritagliando in questi anni. Tuttavia, proprio quando certi processi sembravano in via di consolidamento (e diversi analisti occidentali già piangevano la perdita dell’alleato turco), la prepotente irruzione delle ‘Primavere’ arabe ha, se non stravolto, di certo rimescolato le carte in gioco. Dopo iniziali esitazioni, Erdoğan ha infatti sostenuto i più incisivi fenomeni di rivolta della cosiddetta Primavera, da Egitto e Tunisia fino a Libia e Siria, dimostrando riluttanza maggiore in questi ultimi due scenari, dove evidentemente un grande sforzo diplomatico, rilevanti interessi economici e nuovi assetti strategici con importanti vicini ‘non-allineati’ sarebbero stati inevitabilmente compromessi.

Ancor più che l’avallo al rovesciamento di Gheddafi in Libia, ha destato interesse la brusca inversione nei rapporti con la Siria, passati da una iniziale fase di invito al governo siriano a procedere verso le riforme, ad una ostilità politica che si concretizza nel sostegno attivo alle forze siriane anti-governative e che non escluderebbe nemmeno un intervento militare ‘umanitario-securitario’.

Più in generale nello scenario delle rivolte arabe assistiamo quindi al ritorno ad una convergenza di vedute di Ankara con il blocco occidentale, la quale fa molto riflettere gli analisti. E se c’è chi aveva frettolosamente messo quasi la parola “fine” all’alleanza turco-occidentale, vi è oggi chi altrettanto frettolosamente tende a considerare esaurita la spinta ‘neo-ottomana’ del paese.

La “Primavera” e il riposizionamento turco

Ciò che in ogni caso pare evidente è che, allo stato attuale delle cose, non si può giudicare l’atteggiamento turco né come acriticamente filo-occidentale, né – men che meno – come pregiudizialmente ostile al ‘Occidente’ stesso. Una lettura entro tale rigida bipartizione è destinata a fallire, mentre occorrerebbe comprendere come l’attuale direzione politica turca ha interpretato gli interessi nazionali del paese alla luce dei rivolgimenti regionali in corso.

Di fronte all’incisivo evolvere di tali rivolgimenti, Erdoğan ed il suo governo devono aver compreso che ostacolare le onde di rivolta non ne avrebbe impedito il prepotente infrangersi sui paesi sconvolti dalle stesse, mentre la Turchia ne avrebbe quasi certamente pagato a caro prezzo le conseguenze se avesse difeso ad oltranza i leader politici oggetto di contestazione. Nel breve periodo, il pragmatismo e la spregiudicatezza dell’atteggiamento turco sembrano aver pagato, proprio nella misura in cui la figura di Erdoğan ed il cosiddetto modello turco hanno riscosso successo e visibilità non indifferenti, soprattutto dopo la visita del premier nei paesi nordafricani freschi di regime change. Il viaggio è stato oltretutto occasione per sviluppare più intense forme di cooperazione con questi paesi, si vedano in particolare gli accordi stipulati con il ‘nuovo’ Egitto.

In ogni caso, come prima accennato, il maturato atteggiamento di ostilità di Ankara verso i governi di Gheddafi e, ancor più, di Assad è stato particolarmente sofferto e la tempistica stessa lo dimostra: nonostante le forti perplessità iniziali del suo premier sulla possibilità di intervento militare in Libia, il parlamento turco ha infine autorizzato il 24 marzo l’invio di forze militari nella guerra contro Gheddafi mentre le dichiarazioni ancora concilianti nei confronti di Damasco sulla sua crisi interna sono repentinamente mutate nel mese di maggio verso aperta ostilità.

Siria e Turchia
In questi due particolari scenari bisogna tenere in considerazione l’atteggiamento turco alla luce di quello delle potenze regionali e globali. Quando il conflitto di Libia era cosa ormai certa, ed era evidente che dietro l’ipocrita formulazione della risoluzione 1973 si celava la guerra fino a definitiva capitolazione del governo libico, Ankara ha scaricato il suo alleato. E così, probabilmente, la maturata ostilità verso il governo di Damasco – nell’ottica su ricordata di assecondare l’ondata generale di rivolta – è evoluta finanche in minacce di intervento ‘umanitario’ quando probabilmente le ambizioni di potenze ostili a Damasco hanno reso evidente che potevano ripetersi qui dei deja vu di intervento libico, questa volta però ai confini della Turchia e con il rischio che questa ne subisse passivamente i contraccolpi e senza assumere posizione di rilievo nella gestione della crisi.

Questioni aperte sul corso turco nel breve-medio periodo

Al momento il riassetto degli equilibri internazionali è ben lungi dall’aver raggiunto una stabilità minima, non solo nella regione ma anche a livello globale; in questo contesto resta difficile decifrare le evoluzioni della politica estera turca nelle sue diverse diramazioni. Per semplificare, indichiamo quattro fra le principali questioni che chiamano seriamente in causa Ankara:

    - Relazioni con USA e UE;
    - Ostilità con Israele;
    - Crisi siriana;
    - Questione iraniana;

Chiaramente simili problematiche non sono da considerare a compartimenti stagni bensì inevitabilmente suscettibili di intense implicazioni reciproche. Tuttavia proveremo ad accennarvi separatamente.

1) Relazioni con USA e UE

Si sa che la questione dell’ingresso della Turchia nell’UE è di vecchia data e soggetta ad alterne vicende. E’ alquanto improbabile che si possano compiere nel breve periodo significativi passi avanti al riguardo, alla luce della crisi sistemica che impegna e atterrisce la stessa UE al momento e del peso ulteriore che vi è andata assumendo una Francia evidentemente ostile alla Turchia; si aggiunga a quanto detto la minaccia da parte di Ankara di congelare le relazioni in caso di assunzione della presidenza di turno all’UE da parte di Cipro.

Ankara sembra voler dimostrare attualmente di poter fare a meno dell’UE molto più di quanto questa non possa far a meno della Turchia. Giocando con maggiore decisione e coinvolgimento su più tavoli, la Turchia può rispondere assertivamente alla freddezza con la quale i negoziati di ingresso sono spesso stati accolti in Europa. Al riguardo, è interessante notare come recentemente alcune delle spinte politiche più forti ai negoziati siano giunte (da parte di Obama e – a ruota – di alcuni capi-dicastero europei) all’indomani degli incidenti della Freedom Flottilla, quindi proprio durante un picco di tensione dei rapporti turco-occidentali e non invece di distensione o potenziamento degli stessi; ciò all’evidente scopo di riportare ad occidente un paese che rischiava pericolosamente di scivolare verso un processo di integrazione definitivamente autonomo, se non ostile, rispetto al blocco euro-atlantico.

2) Ostilità con Israele

Le ostilità recenti con Israele, iniziate con l’operazione Piombo Fuso e culminate con i fatti della Mavi Marmara, continuano a persistere fra i due paesi. Il pragmatismo e la spregiudicatezza dimostrati da Erdoğan farebbero pensare che un accomodamento con Israele non sia in linea teorica impossibile. Già alcuni mesi fa una distensione sembrava procedere a compimento, alla luce di segnali eloquenti quali le pressioni governative turche tese a far desistere attivisti turchi dall’impegno nella Freedom Flotilla II. L’ostilità con Israele è tuttavia rimontata e culminata nel declassamento delle relazioni diplomatiche fra i due paesi; il rapporto Palmer sui fatti della Flotilla appare tuttavia poco più che un pretesto al riguardo, se messo a confronto con importanti questioni strategiche ed in particolare con la crisi cipriota sui giacimenti di gas nel frattempo maturata. E’ quest’ultima una vicenda che lascia aperto un contenzioso delicatissimo, legato alla scoperta di enormi giacimenti di gas che acuiscono le tensioni fra Cipro greca e Cipro turca e che vedono Israele coinvolta nell’attivo sostegno alla parte greca dell’isola. Inevitabili ed anzi considerevoli i riflessi che la questione potrà avere anche nelle relazioni con l’UE e la minaccia di congelamento dei negoziati cui si è accennato prima ne è eloquente segnale.

3) Crisi siriana

Difficile pensare che la Turchia possa lanciarsi autonomamente in azioni unilaterali aventi ad oggetto “corridoi umanitari” e simili in Siria. La questione siriana rappresenta in generale per le potenze ostili ad Assad e potenzialmente interventiste uno scenario ben più delicato e imprevedibile di quello libico, in caso di intervento militare. Ed infatti, per quanto la situazione sia ancora estremamente incerta, le possibilità di intervento militare diretto sembrano al momento messe da parte preferendosi insistere sul cosiddetto soft power con un logoramento dall’interno e dall’esterno del potere centrale nel paese. In questo contesto, Ankara sa bene e meglio di altri che le implicazioni di un intervento sono imprevedibili ed ancor più destabilizzanti in quanto riguardanti una realtà immediatamente al di là dei propri confini e dalla quale possono dipendere anche importanti fattori di stabilità interna quali la questione curda. Senza contare che una simile ‘avventura’ potrebbe vedere il serio coinvolgimento di altri paesi confinanti e non (fra i primi, si pensi solo ad Hezbollah dal Libano e allo Stato ebraico) e compromettere anche seriamente il tavolo iraniano e russo ai quali la Turchia non può rinunciare con leggerezza nella sua politica plurivettoriale.

In questo contesto è da pensare che operazioni di ‘hard power’ verranno intraprese dalla Turchia solo se e quando si vedrà l’inarrestabile determinazione delle potenze concorrenti al riguardo. Ankara a quel punto cercherà di non farsi scavalcare e vorrà mettere le mani prima e meglio di altri sul paese-obiettivo. E’ chiaro oltretutto che l’ostilità della Francia, di cui si è accennato a proposito dei rapporti con l’Europa, pesa molto anche nelle possibilità di intervento diretto e congiunto in Siria, nella misura in cui proprio Francia e Turchia sembrano essere i paesi dell’area NATO più determinati ad intervenire.

4) Questione iraniana

Quale infine l’evoluzione dei rapporti con il vicino iraniano? Anche qui non si possono giudicare con nettezza i piani turchi alla luce della recente installazione di un sistema missilistico NATO nel proprio territorio. Ankara non ha interesse a congelare i propri rapporti di vicinato con la potenza iraniana, che oltretutto ne rappresenta un importante partner per l’importazione di energia, nonché un importante fattore di stabilità a causa del comune problema legato alla minoranza curda. Recenti dichiarazioni del ministro degli esteri turco hanno escluso la possibilità di intervento turco contro l’Iran ma simili dichiarazioni non rappresentano di certo un punto fermo, insuscettibile di bruschi cambiamenti di posizione. Ancor più che un ipotetico scontro con la Siria però, un conflitto con l’Iran – oltre che ben più grave ed assolutamente imprevedibile negli sviluppi – traccerebbe un profondo solco fra la Turchia e le potenze continentali, in caso di sostegno allo stesso. Sarebbe a quel punto molto difficile per la Turchia mantenere il suo ruolo di snodo vitale d’Eurasia e verrebbe invece inevitabilmente riproiettata in maniera rigida entro l’orbita atlantica.

Ma è evidentemente tutt’altro che scontato che un attacco all’Iran avrà luogo. George Friedman in un suo recente intervento ricorda come un conflitto con l’Iran non sia auspicabile per gli stessi USA e che invece un’operazione di contenimento della potenza iraniana sarebbe da preferire con vie molto meno drastiche; fra queste, importante sarebbe il ruolo della Turchia come potenza controbilanciante quella persiana. Fra le righe scritte da Friedman, si legge il progetto di potenziamento della Turchia come strumento atlantico di contrasto all’Iran, conferendo ad Ankara un ruolo atto ad integrarla a pieno entro il progetto dell’egemone USA di utilizzo dell’intera compagine europea come testa di ponte nella penetrazione verso l’intera massa continentale eurasiatica.

Conclusioni

Si è cercato di inquadrare i recenti “giri di valzer” turchi alla luce degli sconvolgenti mutamenti irrotti di recente nello scenario vicinorientale. Non si può a tal proposito dimenticare il retroterra storico della nazione turca, tanto nelle sue eredità ottomane quanto in quelle della sua storia repubblicana e così anche nella dialettica interna al paese che vede contrapposti sul piano politico (con interessanti risvolti costituzionali) gli attuali vertici politici contro altri poteri (militari e magistraturali in particolare), con risvolti tutt’altro che trascurabili sulla collocazione internazionale del paese stesso.

Seguendo coordinate più astratte possiamo aggiungere che la Turchia paga in ogni caso un’inevitabile ambiguità legata al suo status di penisola, tanto più in quanto collocata in uno snodo vitale come quello ‘mediterraneo-eurasiatico’.
Difficile, come si è visto, prevedere le mosse della potenza turca nei principali scenari attuali, anche alla luce dell’estrema incertezza degli stessi. Ankara non ha esitato a cambiare repentinamente gli assetti della sua politica estera con spregiudicatezza (potremmo anche parlare su certe questioni di “opportunismo” e “tradimento” se volessimo applicare criteri morali all’agire politico). Ciò le ha permesso di tener testa alla destabilizzazione procurata dalle rivolte e di penetrare con un certo successo nei paesi da queste sconvolti, concorrendo in ciò con quegli attori regionali e globali che hanno maggiormente influenzato i processi in corso (paesi occidentali e ‘petro-monarchie’ del Golfo).

Ankara ha dimostrato determinazione nel perseguimento del proprio interesse nazionale ma se vi è un rischio potenziale nella sua politica, questo potrebbe essere dato proprio dal sacrificare visioni di ampio respiro per vantaggi di breve periodo. Cedere ad un netto sbilanciamento ad occidente – tentazione forse ancor più forte in caso di intense crisi regionali – potrebbe costare caro alla Turchia, presto o tardi. Se questa infatti, anche di fronte a singole occasioni apparentemente vantaggiose, dovesse infine ridursi a testa di ponte e ‘portaerei’ di interessi stranieri, si ritroverà a dir poco monca, rispetto alle potenzialità che le sue caratteristiche – a partire dalla posizione geografica – le offrono. Viceversa, rinunciare anche a vantaggi immediati ma alla luce di una politica di autonoma integrazione mediterranea ed eurasiatica, renderebbe massimamente espresso quel ruolo di potenza e di snodo regionale fondamentale che alla nazione turca legittimamente compete.


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