di Paolo Balmas
La grande regione dell’Asia-Pacifico nelle ultime settimane è stata caratterizzata da un’attività diplomatica particolarmente intensa. Sono state siglate intese che nel futuro più prossimo si ripercuoteranno sugli equilibri dell’intera regione. L’attenzione si sofferma chiaramente sul vivo dialogo intrapreso fra il nuovo Primo Ministro indiano Narendra Modi e il governo giapponese di Shinzo Abe, ma anche fra quest’ultimo e il collega australiano Tony Abbott e, infine, fra India e Australia. Sebbene i rapporti si siano sviluppati su base bilaterale, i tre Paesi hanno di fatto dato vita a una “triangolazione” in cui le relazioni tra l’uno e l’altro risultano complementari e costituiscono le basi di una cooperazione che, se risulterà solida come i tre leader si aspettano, è destinata a gettare le basi del nuovo assetto regionale. Tuttavia, le conseguenze non sono e non possono essere ancora del tutto chiare. Soprattutto perché le sfide sono talmente impegnative che la conclusione è tutt’altro che ovvia.
Sullo sfondo si sviluppano progetti complessi su vasta scala per definire i rapporti commerciali, finanziari, strategici militari e ovviamente politici. In questi giorni, infatti, non solo si protraggono le attività per raggiungere un accordo sul Trans Pacific Partnership, ma si opera al fine di dare vita a sodalizi ben più impegnativi. Si pensa, ad esempio, ai rapporti dei Paesi dell’area con la NATO. Sebbene di recente si sia affermata la volontà di avvicinarsi all’Alleanza, in particolare da parte giapponese, è ormai da lungo tempo che si ragiona sulla possibilità di permettere l’ingresso ad alcuni attori asiatico-pacifici e rendere il patto atlantico aperto di fatto agli altri oceani. La questione è controversa perché in seno alla stessa NATO, quanto in Asia, esistono vari modi di intendere un possibile allargamento. Sostanzialmente sono due le scuole principali: una vede il mantenimento della guida del quartier generale di Bruxelles anche per gli alleati asiatici, in tutto e per tutto; l’altra prende in considerazione di creare un’alleanza militare orientale strettamente legata alla “sorella maggiore” occidentale. Nel dibattito si è schierato apertamente il magnate dell’informazione Keith Rupert Murdoch. Questi ha dichiarato la necessità di assistere in breve tempo all’ingresso della sua patria (l’Australia) e del Giappone nella NATO. Si tratta di uno scenario sempre più probabile. La necessità di allargare l’Alleanza (o di crearne una locale) è stata giustificata con il bisogno di una decisa politica di contenimento nei confronti della Cina.
Malgrado siano anni che si lamenta il pericolo di una maggiore influenza cinese nella tratta marittima che dall’Estremo Oriente giunge al Mediterraneo, è sempre più palese che i rapporti economici fra la Cina e i suoi vicini non coincidono con le posizioni politiche delle parti, soprattutto come queste vengono rappresentate dai mass-media. Si dimentica innanzitutto che il Giappone è il primo partner commerciale di Pechino. Nel 2013 sono stati superati i 210 miliardi di euro negli scambi fra i due Paesi, con una crescita del 10% delle esportazioni verso la Cina e del 17% di quelle verso l’arcipelago nipponico. Continua a crescere il mercato degli strumenti per la comunicazione, che permette un ingresso di materiale high-tech in territorio cinese e un ritorno in Giappone di apparecchi finiti, come tablet e cellulari. Tale circuito rappresenta un mercato di vitale importanza per entrambi. Inoltre, gli investimenti diretti di Tokyo in Cina, a partire dal 2000, hanno raggiunto quasi i 100 miliardi di euro. Se si è registrato nel 2013 un calo di tali investimenti è solo perché nel 2012 sono stati particolarmente elevati. Oggi il Giappone è il terzo Paese al mondo per investimenti diretti in Cina. Un rapporto economico-finanziario così profondo non può essere ridotto alla tensione dai toni belligeranti descritta negli ultimi mesi a più riprese sulle testate di tutto il mondo, anche se è vero che la presenza militare nel mare che separa il Sol Levante dalla terra ferma è in aumento.
L’andamento degli investimenti giapponesi, inoltre, suggerisce che la Cina abbia di fatto già intrapreso la trasformazione da un’economia fondata sul settore manifatturiero a una orientata al consumo e ai servizi (finanziari, assicurativi, immobiliari, eccetera). Il processo avrà bisogno dei suoi tempi, ma gli attori coinvolti devono prepararsi sin da ora a mantenere i rapporti con un gigante che si accinge a mutare la propria pelle. In quest’ottica la conclusione di solide intese fra Giappone, Australia e India consiste nel gettare le basi per affrontare le sfide di quello che è stato definito il secolo del Pacifico. Non solo si procede verso la naturale espansione di mercati che nascondono immense opportunità, ma si stabiliscono anche le fondamenta di un’ipotetica alleanza strategica per il controllo dell’Asia-Pacifico.
La nuova interpretazione della Costituzione giapponese da parte del governo di Abe e la conseguente collaborazione in materia di armamenti intrapresa con Canberra e con New Delhi, ha già dimostrato che gli equilibri sono destinati a una revisione. Fino ad oggi il Giappone ha prodotto pochi armamenti e a prezzi molto elevati. Ora sarà libero di sfruttare un mercato nuovo e in veloce crescita in quella parte del mondo. Dal 2010 al 2013, secondo gli analisti di SIPRI, la Corea del Sud ha registrato un aumento delle esportazioni di armi di quasi il 300%. Nello stesso periodo la Cina è diventata la quarta esportatrice mondiale dopo gli Stati Uniti, la Russia e la Germania.
In questo settore l’India rappresenta il mercato più importante dei prossimi anni, date le riforme che sta affrontando e il bisogno crescente di essere preparata alle minacce emergenti, tra cui pirateria, terrorismo e cyber-attack. Le recenti esperienze negative di New Delhi con Russia e Francia hanno determinato la possibilità per altri partner di accaparrarsi una fetta maggiore degli approvvigionamenti di armi di cui il Subcontinente necessita. Inoltre, si assisterà a esercitazioni congiunte e alla creazione di squadre di intervento rapido, in perfetto stile atlantico.
Mentre l’Australia e il Giappone hanno già un rapporto privilegiato con la NATO, per l’India sarà più difficile aderirvi. Una strada più semplice, per New Delhi, sarebbe forse quella di un patto a livello locale per condividere le preoccupazioni e dare vita a una strategia comune. Le intese di carattere bilaterale con Canberra e Tokyo e il modo in cui si completano sul territorio indiano, dimostrano che esistono i presupposti per definire una strategia realmente congiunta. L’esempio che maggiormente dimostra tale potenzialità risiede nelle intese in materia di energia nucleare dei tre Paesi.
L’India si è trovata a dover affrontare la mancanza di energia per soddisfare i bisogni della propria popolazione; vanta una ventina di reattori che producono energia nucleare, dislocati in sei diversi impianti. Ma il settore dipende ancora fortemente dal carbone e circa 400 milioni di indiani vivono senza luce elettrica. La crescita economica indiana ha un’immensa sete di energia. Il fatto che l’India come potenza nucleare non ha firmato il patto internazionale di non proliferazione (con Pakistan, Israele e Corea del Nord), ha limitato le possibilità di importare l’uranio necessario a produrre maggiore energia. L’ultimo incontro fra Modi e Abbott ha sancito proprio un accordo fondato sulla fiducia reciproca che vede l’Australia, terzo produttore di uranio al mondo, fornire il prezioso all’India. Una svolta storica per entrambi i mercati. Dal Giappone, invece, giunge la possibilità per New Delhi di importare il know-how necessario a sviluppare impianti di nuova generazione che risolverebbero nel medio termine una buona fetta del problema energetico (sono sempre più frequenti i blackout in varie regioni del subcontinente). Una pianificazione di tale livello è stata possibile anche grazie al fatto che dal 2008 Washington si è dichiarata favorevole al programma nucleare indiano a scopo civile.
Anche in ambito di sicurezza e difesa, dagli armamenti al traffico marittimo, la cooperazione si prospetta intensa. Nelle ultime settimane è sempre più frequente, soprattutto su Internet, la presenza di articoli che propongono la Cina e l’India come due naturali antagonisti, non solo a causa della crescita esponenziale di entrambi, ma anche a causa di un tratto di confine conteso. Tuttavia, la tensione a volte descritta non sembrerebbe coincidere con la realtà. Narendra Modi infatti è intenzionato ad aprire il proprio Paese anche a nuovi investimenti cinesi. In fondo, Cina e Giappone sono le uniche economie che possono investire ingenti capitali nell’immediato. In particolare, New Delhi si aspetta da Pechino un aiuto concreto allo sviluppo della rete ferroviaria, necessaria allo sviluppo dei traffici interni, per portare merci e persone dalla costa all’entroterra. Tokyo ha già assicurato un discreto appoggio per lo sviluppo del corridoio New Delhi-Mumbai, ma chiaramente da sola non potrà affrontare lo sviluppo della rete dell’intero Paese. Gli interessi fra India e Cina sono molteplici e si dovrà aspettare il prossimo vicino incontro fra Narendra Modi e Xi Jinping per capire quale direzione vogliono prendere insieme i due giganti asiatici.
Gli Stati Uniti, la cui presenza militare nell’area è ancora talmente superiore che non possono temere rivali, spingono a favore della creazione di una vasta coalizione strategico-commerciale nella quale includere, oltre ai tre grandi di cui si è parlato, anche Seoul. I diverbi fra questa e Tokyo sono attualmente il maggiore ostacolo al sodalizio voluto da Washington. Il ricordo delle atrocità nipponiche durante la Seconda Guerra mondiale, effettuate sia in territorio coreano che cinese, è una straordinaria arma nelle mani di Pechino per minare i piani transoceanici. La guerra mediatica accompagna con molta attenzione e con largo anticipo le mosse della partita in corso per la conquista di fette di mercato e di presenza militare nella grande regione dell’Asia-Pacifico.
La posta in gioco, il controllo della regione e l’espansione dell’influenza sui traffici marittimi, è talmente alta che non è possibile ancora prevedere tutte le ripercussioni delle intese siglate questa estate. Ciò che è sicuro è che tale partita è tanto più delicata e complessa quando si prendono in considerazione la reale portata dei rapporti dei singoli giocatori con la Cina e il contrasto creato dal tentativo di gettare le basi per un’alleanza strategica volta al contenimento della stessa.
* Paolo Balmas è Dottore in Lingue e Civiltà Orientali (Università La Sapienza, Roma) e membro del Consiglio Direttivo di Istrid Analysis
Photo credits: Reuters
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