di Davide Borsani
Quando Henry Kissinger scrisse che «le condizioni sono propizie» per «la creazione di una North Atlantic Free Trade Area» in grado di sostenere globalmente il principio del libero scambio e che, «nel medesimo tempo, favorirebbe la cooperazione»[1] tra Stati Uniti ed Europa, non si riferiva certo agli anni successivi alla ‘grande crisi’ del 2007, benché con lungimiranza raccomandasse all’Occidente di rilanciare la propria economia di fronte all’imminente ascesa dell’Asia. Era il maggio del 1995. Pochi mesi più tardi, in dicembre, il Presidente americano Bill Clinton e quello della Commissione Europea Jacque Santer reputarono saggio perseguire il consiglio di Kissinger e adottarono la New Transatlantic Agenda, che tra i suoi cardini auspicava proprio la creazione di una New Transatlantic Marketplace, la quale avrebbe esteso «le opportunità di commercio e di investimento e [moltiplicato] i posti di lavoro su entrambe le sponde dell’Atlantico». Non ancora un’area di libero scambio compiuta, ma certamente sembrava essere l’inizio di un cammino promettente.
Tre anni dopo, nel 1998, Stati Uniti ed Unione Europea proseguivano sulla medesima strada, firmando a Londra l’accordo per l’avvio della Transatlantic Economic Partnership (TEP), volta ad armonizzare standard, regole e procedure col fine di approfondire ulteriormente il dialogo euro-atlantico e, neanche troppo velatamente, per spingere verso la creazione di quella che fu chiamata Trans-Atlantic Free Trade Area (TAFTA), sul modello del North-American Free Trade Agreement (NAFTA) tra Stati Uniti, Canada e Messico. Eppure, la nuova enfasi della Casa Bianca verso i mercati asiatici sommata a quella dell’Europa verso l’approfondimento e l’allargamento dell’Unione, i crescenti attriti nel tentativo di armonizzare i differenti sistemi normativi, la divisione dell’opinione pubblica europea sui pro e i contro (a partire da quella francese) e l’irrisolto nodo del rapporto tra una area così estesa e la liberalizzazione del commercio mondiale in sede World Trade Organization (WTO) fecero sì che l’idea della TAFTA tramontasse[2].
Nel 2006, dopo la profonda crisi sull’Iraq, la neo-Cancelliera tedesca Angela Merkel tentò di rilanciare l’iniziativa con l’auspicio di riavvicinare la recalcitrante Europa agli Stati Uniti, rinsaldando così il legame euro-atlantico. Come scrisse The Economist, la Merkel desiderava «una zona di libero scambio transatlantica, che abbattesse le barriere non tariffarie tra l’America e l’Europa. […] È un’atlantista convinta, una riformatrice del mercato e una liberoscambista che ha ristabilito l’immagine della ‘Buona Germania’»[3]. Sotto la spinta tedesca, nell’aprile 2007 a Washington, il Presidente George W. Bush, quello della Commissione europea José M. Barroso e la stessa Merkel firmavano quindi l’accordo che istituiva il Transatlantic Economic Council (TEC), volto a «rafforzare gli scambi e gli investimenti e la capacità di entrambe le economie di innovare e competere sui mercati globali».
Tenuto in naftalina per oltre quattro anni, evidentemente concepito come organo dal valore simbolico, i leader di Europa e Stati Uniti decisero di rispolverare il TEC nel novembre 2011di fronte alle crescenti difficoltà causate dalla crisi economica su ambo le sponde dell’Atlantico. Gli fu dunque commissionato di studiare nuove opportunità per stimolare la crescita e la creazione di posti di lavoro in Occidente, così da continuare a garantire ai Paesi euro-atlantici la competitività sui mercati internazionali e, in ultima analisi, il loro risollevamento economico di fronte ad un rischioso (e sempre più evidente) declino relativo nel mondo. Il rapporto finale del TEC, pubblicato nel febbraio 2013, riteneva che «un accordo globale che copra tutti i settori [dell’economia] sarebbe estremamente positivo». Contemporaneamente, a Washington, durante il discorso sullo stato dell’Unione, Barack Obama dava eco globale alle conclusioni del TEC, annunciando al Congresso l’intenzione di avviare i negoziati con l’Unione Europea.
La scorsa settimana sono infine iniziate ufficialmente le trattative diplomatiche, le quali – nel migliore degli auspici – dovrebbero concludersi entro un paio d’anni, così da istituire ciò che ora è stata ribattezzata Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). La TTIP nasce come progetto più ambizioso della TAFTA, sia in termini economici che politici. Da un punto di vista economico, non solo mira a liberalizzare il flusso di merci e servizi, ma anche quello cospicuo degli investimenti. Se è vero che attualmente le tariffe protezionistiche transatlantiche sono già basse (5,2% per l’UE, 3,5% per gli USA), le barriere non tariffarie costituiscono il principale ostacolo ad una maggiore integrazione delle rispettive economie. La Camera di Commercio degli Stati Uniti ha infatti stimato che la loro eliminazione incrementerebbe il PIL combinato di USA ed UE di circa il 3% su base annua. In più, la TTIP sarebbe in grado di creare 7 milioni di nuovi posti di lavoro[4], oltre a fornire nuovi stimoli per aumentare la produttività, soprattutto nel Vecchio Continente, e la competitività. Eliminando congiuntamente dazi doganali e barriere non tariffarie, il Centre for Economic Policy Research (CEPR) ha poi stimato che il beneficio per l’economia europea ammonterebbe a 119 miliardi di euro l’anno, pari in media a un introito aggiuntivo del valore di 545 euro per ciascuna famiglia. L’economia americana ne ricaverebbe un utile supplementare di 95 miliardi euro annuali, pari a 655 euro per famiglia[5]. Di fronte ad una persistente crisi economica, in particolare in un’Europa che presenta ancora Paesi in recessione, la TTIP potrebbe perciò rappresentare il volano della crescita che consentirebbe ai mercati euro-atlantici di invertire (o quantomeno rallentare) il passaggio a livello globale da «una posizione di preminenza ad una di predominanza [che oggi è] ancora considerevole, ma meno schiacciante rispetto al passato»[6] di fronte all’ascesa dei BRIC (soprattutto della regione asiatica).
Da un punto di vista politico, la recente accelerazione sulla TTIP indica che Europa e Stati Uniti hanno ormai riconosciuto il fallimento del Doha Round in seno al WTO e, più in generale, la ridotta efficacia dell’organizzazione stessa. A differenza della fine degli anni Novanta, infatti, la rapida ascesa dell’Asia e la conseguente riduzione delle quote di mercato di Europa e Stati Uniti hanno cambiato le regole del gioco, rendendo meno soggetto il WTO alle volontà e agli interessi occidentali. Riconoscendo la supremazia del principio del libero mercato in chiave occidentocentrica, ciò che Obama sta perseguendo altro non è, quindi, che la direzione già indicata dal suo rivale repubblicano nelle scorse elezioni presidenziali, Mitt Romney, per il quale l’avvio di un’ambiziosa area di libero scambio con rigorosi requisiti democratici e liberisti per farvi parte (che avrebbe voluto chiamare Reagan Economic Zone) avrebbe dovuto funzionare come magnete globale in sostituzione di un inefficace WTO. Come ha affermato il politologo di Harvard, Richard N. Rosecrance, il WTO ormai «è un fallimento. Se l’unione transatlantica prenderà corpo, al contrario, sarà talmente potente da creare i presupposti per una concertazione globale, a cui tutti vorranno aderire. Il Giappone sarà il primo, e a seguire la Cina, spinta dalla necessità di operare con grandi economie di scala»[7]. Di conseguenza, dopo il tanto celebrato pivot to Asia e la ‘benevola disattenzione’ del primo mandato di Obama, l’Europa è tornata ad essere, almeno in prospettiva economico-politica, uno dei perni della strategia americana. Facendo leva sul ‘vecchio’ alleato (che in primis trarrebbe cospicui benefici) e sul rafforzamento del legame transatlantico, infatti, gli Stati Uniti sono intenzionati a consolidare la propria leadership nel sistema internazionale, frenando indirettamente l’avanzata del diretto competitor cinese.
La considerevole ambizione del progetto è però pari alla sua probabilità di fallimento o, comunque, di un mancato pieno raggiungimento dello scopo auspicato dal TEC. Al di là della favorevole congiuntura economico-politica, per cui la TTIP – se conclusa – procurerebbe evidenti vantaggi all’Occidente, vi sono due aspetti che non andrebbero sottovalutati. Il primo, il più ovvio, è la condizione strutturale dell’Occidente che, in quanto entità limitatamente inquadrabile entro confini economici e politici univoci, è costantemente attraversato da faglie che riducono tanto il raggiungimento quanto la portata di una eventuale azione concertata. In aggiunta a ciò, la stessa Unione Europea e, dunque, i suoi Stati membri divergono fortemente sui rispettivi interessi economici, il che rende ulteriormente difficoltoso armonizzare a livello politico le posizioni dei futuri ‘vincitori e perdenti’ della TTIP; anzitutto in seno all’architettura comunitaria, ma con riverberi in America. Ciò è stato particolarmente evidente nel caso della Francia, che proprio in sede comunitaria, nell’affidare alla Commissione Europea il mandato negoziale, ha esercitato il proprio veto sulla liberalizzazione del settore audiovisivo, ribadendo il principio della ‘eccezione culturale’: fatto certamente ben accolto da alcuni Paesi europei, a partire dall’Italia e dalle sue lobby[8] (non da Germania e Gran Bretagna), ma altrettanto inviso agli Stati Uniti che, tramite un tweet del proprio Ambasciatore presso l’UE William Kennard, hanno fatto sapere che Washington non gradisce eccezioni «di alcun tipo».
Il secondo aspetto, invece, riguarda la narrativa che circonda la TTIP e, quindi, di riflesso, la ‘legittimità’ del rafforzamento del legame euro-atlantico. Se le incertezze dell’opinione pubblica furono uno dei motivi del fallimento della TEP/TAFTA, a distanza di quindici anni i governi dovrebbero ampiamente riflettere sul non commettere lo stesso errore. Fino ad oggi, la TTIP è stata materia di una ristretta cerchia di studiosi e, dunque, sottratta alla pluralità di voci della società civile: «ciò di cui l’Europa e gli Stati Uniti hanno davvero bisogno è un dibattito molto più inclusivo – sia a livello interno che esterno – invece di concentrarsi solo sui dettagli tecnici e giurisdizionali»[9]. Includere maggiormente l’opinione pubblica, spiegandole il significato e la portata della TTIP, sarebbe forse l’unico modo per debellare (almeno nella fase negoziale) i sempreverdi antiamericanismi europei che, come dimostrato dal recente caso del Datagate, «non devono diventare una minaccia al futuro dell’unione transatlantica, altrimenti a farne le spese sarà tutto l’Occidente»[10]. Un accordo ambizioso e veramente vantaggioso per Europa e Stati Uniti passa anche da qui.
* Davide Borsani è PhD Candidate in Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali (Università Cattolica del Sacro Cuore)
[1] H. Kissinger, For US leadership, a moment missed, in ‘The Washington Post’, 12 maggio 1995
[2] Cfr. G. Lundestad, The United States and Western Europe since 1945. From “Empire” by Invitation to Transatlantic Drift, Oxford University Press, New York 2003, p. 264; D. K. Bandler – P. Rashish, The Trouble with TAFTA, in ‘The National Interest’, 6 febbraio 2007
[3] The Economist, Tricky weather: Germany’s role in Europe is changing, 11 gennaio 2007
[4] US Chamber of Commerce, Transatlantic Economic and Trade Pact, 2012, p. 2; IstitutoAffariInternazionali, A Deeper and Wider Atlantic, Documenti IAI 1301, febbraio 2013
[5] J. Francois, Reducing Transatlantic Barriers to Trade and Investments. An Economic Assessment, Centre for Economic Policy Research, marzo 2013
[6] D. Hamilton – J. Quinlan, The Transatlantic Economy, Volume 1: Headline Trends, Center for Transatlantic Relations, 2012
[7] La Stampa, “Se salta l’accordo Usa-Ue a vincere sarà Pechino”, 4 luglio 2013
[8] Cfr. il report di Confindustria, Accordo di Libero Scambio UE-USA. “Transatlantic Trade and Investment Partnership – TTIP”. Analisi e Osservazioni, maggio 2013, pp. 36-37
[9] M. Venhaus, TAFTA/TTIP and the Story of Inclusiveness: A Transatlantic Fairy Tale, 4 luglio 2013
[10] La Stampa, cit.
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