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Tu chiamala se vuoi.. revolution

Da Femminileplurale

Si può fare politica con l’indignazione?

Tu chiamala se vuoi.. revolutionIn queste settimane è stato dato parecchio rilievo, sulla stampa, ad un movimento che si sta diffondendo soprattutto sul web e che si è dato il nome di “Italian Revolution. Democrazia reale ora”. Nato sull’onda del movimento che ha portato in piazza diverse migliaia di persone in Spagna, anche il movimento italiano si propone degli obiettivi ambiziosi, come si può dedurre dal suo nome. Rivoluzione, democrazia reale. Peccato che, se si vanno a cercare i contenuti sul web, si trovi ben poco. E quel che si trova dà la netta sensazione di una serie di esternazioni di dilettanti allo sbaraglio. Le proposte che si trovano nel manifesto sono delle più disparate, e vanno dalla completa riscrittura dei codici civile e penale alla legalizzazione della prostituzione: tutte affermate in termini generalissimi e prive di qualunque caratterizzazione (se la prima è ridicola dal punto di vista giuridico, la seconda è pregna di implicazioni molto problematiche sulle quali non si può sorvolare).

Quello che lascia più perplessi è la totale mancanza di conoscenza, di approfondimento e di approccio critico rispetto ai temi che dovrebbero costituire l’oggetto di questa azione rivoluzionaria.

Si tratta, chiaramente, di un problema che ha a che fare con le singole persone che partecipano, ad esempio, alla stesura del “Manifesto” del movimento (prima il movimento, poi i contenuti? Mah).

Ma il vero problema, in realtà, riguarda la natura di questo movimento. Come questi, ce ne sono stati altri che invocavano un “nuovo” modo di fare politica, la partecipazione dei cittadini alla vita politica e alle decisioni, il web come elemento innovatore e capace di collegare moltissime persone. Penso al popolo viola, penso anche al 13 febbraio e al movimento “Se non ora quando?”.

Sono, questi, movimenti che non nascono sulla base di un contenuto politico, né per rivendicare qualcosa di preciso, ma costituiscono piuttosto l’espressione di una “indignazione”, di uno sdegno, di una insoddisfazione, frustrazione, rabbia. Questi sono sentimenti. Lungi da me sostenere che i sentimenti debbano essere esclusi dalla vita politica, ma non possono essere più di un motore per un’azione politica che si deve sostanziare – tuttavia – di ben altri contenuti. Non è politica, quella che si esaurisce in un sentimento. Perché la cosa peggiore, in questo caso, è che passato il sentimento – sfogata l’indignazione, fatto un po’ di casino, passato qualche giorno in piazza (come forse molti degli attuali rivoluzionari non avevano mai fatto prima) – passa anche il movimento, come peraltro è accaduto per il 13 febbraio e l’indignazione delle donne italiane: a quanto pare tutti/e si sono sfogati/e, e chi ne parla più?

Un movimento siffatto è il modo migliore per lasciare che questo “sistema” – che, sia chiaro, non piace a nessuno di noi – continui ad essere tranquillamente così come è sempre stato. Se si creano degli spazi di sfogo come può essere uno status su facebook o anche una riunione di piazza, dove però non si produce alcun concreto contenuto politico che vada al di là della generica affermazione che non ci piace niente e che vogliamo cambiare tutto, allora il risultato sarà, inevitabilmente, che ad un certo punto si troverà un’altra valvola di sfogo, o ad un certo punto arriverà la polizia per davvero, e allora si scapperà tutti a casa.

Di certo i popoli del Nord Africa (a molti piace paragonare le piazze spagnole a quelle egiziane o tunisine, compiendo un evidente e grossolano errore di valutazione) non si sono ribellati per una generica aspirazione democratica, o perché c’erano Twitter e Facebook. La rivoluzione si fa quando non si ha nulla da perdere. E questa non è (non ancora, per lo meno) la situazione di nessun giovane italiano che stia seduto in piazza o davanti al suo computer. Fortunatamente, siamo ancora (teoricamente) nelle condizioni di fare un discorso politico, invece che di darci fuoco per la disperazione, e di scendere in piazza, se lo vogliamo fare, con un insieme di concrete rivendicazioni politiche rispetto alle quali chiedere conto alla nostra classe politica. Sono certa che questo sia l’unico modo: stare in piazza per poi pensare a cosa volere mi sembra implicare un grosso fraintendimento dell’ordine delle cose.


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