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Tunisia: crisi politica, emergenza economica

Creato il 11 dicembre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Sara Brzuszkiewicz

tunisia
Interruzione del dialogo nazionale, omicidi politici, attentati, crisi economica e proteste dimenticate: la Tunisia rischia di vivere a scoppio ritardato il tradimento di una primavera che sembrava quasi fiorita. Lo scorso 5 novembre il dialogo tra il partito islamista moderato En-nahda e lo schieramento delle opposizioni si è interrotto per poi riprendere il 18 dello stesso mese, senza tuttavia aver condotto a conclusioni che permettessero di superare la stagnazione in cui si trova oggi la politica interna tunisina. La ripresa delle trattative destinate a portare alla nomina di un nuovo Primo Ministro ha visto infatti i nomi avanzati dalle due parti subire sistematicamente il veto da parte degli avversari. Ciò sta dilatando ulteriormente i tempi d’attuazione della road map stilata per raggiungere, oltre alla nomina di un nuovo Premier, la creazione di un’autorità di controllo per le elezioni, la stesura di una nuova Costituzione e l’individuazione di una data certa per le elezioni politiche. In base alla proposta avanzata nei mesi scorsi da gran parte dell’opinione pubblica e da sindacati, imprenditori, Lega per i Diritti Umani ed inizialmente avversata da En-nahda, quest’ultima aveva accettato di cedere il passo ad un governo tecnico nominato congiuntamente alle opposizioni. Recentemente il Premier Ali Larayedh ha poi ribadito la propria disponibilità a dimettersi, sebbene solo a processo di transizione del tutto concluso.

L’eventualità di avviare la road map oggi in corso aveva cominciato a prendere corpo già lo scorso 6 febbraio, giorno dell’uccisione di Chokri Belaid, segretario del Partito Unificato dei Democratici, l’ampio raggruppamento d’opposizione nato nell’aprile 2011. Pochi mesi dopo, il 25 luglio, si è verificato un secondo omicidio politico: Mohamed Brahmi, coordinatore generale del Movimento Popolare e membro dell’Assemblea Nazionale Costituente, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco davanti a casa sua. Gran parte dell’opinione pubblica e i partiti d’opposizione non hanno esitato ad accusare En-nahda ed il suo leader Rashid Ghannouchi di essere i mandanti di entrambi gli omicidi, mentre il partito accusa i gruppi islamici radicali. Entrambi gli omicidi hanno provocato ondate di manifestazioni e scioperi dei maggiori sindacati ed una rapida crescita dell’instabilità interna. A seguito dell’omicidio di Brahmi, il ministro degli Interni Lotfi Ben Jeddou ha rivelato che i due politici sono stati uccisi con la stessa arma e che in entrambi sarebbe coinvolto un salafita takfirista [1] con precedenti nel traffico d’armi, Boubaker Hakim, appartenente al gruppo degli Ansar al-Sharia [2].

Proprio l’ascesa dei movimenti salafiti nel Paese rappresenta un ulteriore fronte di contrasto tra En-nahda e le opposizioni, che ritengono il partito al potere eccessivamente indulgente verso di essi. En-nahda è da più parti accusato di ambiguità nei confronti di gruppi già colpevoli dell’attacco  all’Ambasciata statunitense del settembre 2012 e di ripetuti assalti a negozi che vendevano alcolici e ad esposizioni di arte contemporanea, episodi che effettivamente hanno ricevuto dal partito di governo poco più che condanne verbali.

La preoccupazione di derive islamiste è forte anche in Francia, Paese storicamente legato alla Tunisia fin dai settantacinque lunghi anni di isti’mar, colonialismo (1881-1956). Già a seguito dell’omicidio di Belaid infatti, il Primo Ministro francese Manuel Valls aveva dichiarato la Tunisia un Paese a rischio di dittatura islamico-fascista. Ai tempi di tale dichiarazione i rapporti erano però tesi anche per il rifiuto da parte di En-nahda di mettere a disposizione lo spazio aereo tunisino per le operazioni francesi in Mali.

Da questa crescente esasperazione e dall’instabilità nazionale potrebbero trarre vantaggio proprio alcuni gruppi minoritari e singoli individui che affermano di riconoscersi nella salafiya, avendo questi ultimi, nell’attuale caos tunisino, un maggior margine di manovra per accrescere l’insicurezza diffusa. Ciò è accaduto già il 30 ottobre, giorno in cui due attentati, uno in un albergo di Sousse ed uno al mausoleo di Habib Bourghiba a Monastir, avrebbero dovuto fare strage di turisti e forze dell’ordine. Il giovane attentatore di Monastir è stato fermato poco prima di entrare nel mausoleo con uno zaino pieno di esplosivo. A Sousse invece, un commando dal numero di componenti ancora incerto è stato bloccato prima di entrare nell’hotel Riyadh Palm. Il gruppo si è dunque allontanato ma uno dei membri si è fatto esplodere sulla spiaggia antistante, mentre la polizia il pomeriggio stesso ha dichiarato di aver arrestato gli altri membri del gruppo. A seguito di questi episodi lo stato d’emergenza è stato prorogato fino al 30 giugno 2014, mossa che inevitabilmente, se permetterà alle forze dell’ordine un controllo più ferreo sugli obiettivi sensibili, non incoraggerà il turismo oggi già in diminuzione.

Oltre ad aver accresciuto la percezione interna ed estera dell’instabilità tunisina, i recenti attentati si collegano dunque strettamente anche all’attuale crisi economica del Paese, per almeno due ragioni fondamentali: il fatto che abbiano colpito due luoghi turistici, la giovane età degli attentatori.

Sul primo punto è bene ricordare che il PIL tunisino è composto per il 60% dal settore terziario, ed in esso per un buon 20% solo dal settore turistico, il quale non veniva colpito concretamente da atti terroristici dall’attacco alla sinagoga di Djerba del settembre 2002, che causò 19 morti e venne rivendicato da al-Qaeda. Secondariamente, anche la giovane età dei terroristi, tutti di poco più che vent’anni, si ricollega tra gli altri anche a un dato economico, quello sulla disoccupazione e l’assenza di prospettive reali per i giovani. La disoccupazione totale nel terzo trimestre di quest’anno è in lieve calo, circa al 17%, ma quella giovanile resta al 33,5 % per i ragazzi ed al 43% circa per le ragazze.

Per comprendere la natura della crisi economica tunisina è necessario ricordare come il Paese rappresenti quasi un unicum nella regione in quanto sprovvisto di risorse energetiche naturali sul proprio territorio. Tunisi produce gran parte di ciò che consuma ma le esportazioni sono esigue e questo lo rende maggiormente dipendente dai rapporti con l’estero e primariamente con l’Unione Europea, nella quale Francia, Italia e Germania costituiscono i primi partner commerciali.

Ad aggravare la crisi hanno dunque inevitabilmente contribuito anche il crollo verticale della domanda europea su un export già contenuto e gli investimenti diretti esteri che tardano a crescere. Un significativo 5% del PIL è poi creato dalle rimesse dei migranti tunisini all’estero, che dal 2008 registrano a loro volta una diminuzione, coi migranti che vivono a loro volta la crisi nei Paesi europei e faticano a risparmiare denaro sufficiente da inviare in patria. Il Paese dunque, pur restando il secondo Stato della regione più ricco dopo la Libia, ospitava già nel 2011 250 mila persone che vivevano con meno di 1,25 dollari al giorno [3].

In un siffatto contesto, le cui dinamiche si stanno evolvendo rapidamente e nel quale il processo per il ripristino di una democrazia stabile è ad oggi in fieri, anche chi nella società civile si è da sempre assunto il ruolo di interprete della Tunisia post-rivoluzionaria a beneficio dell’occhio internazionale non riceve attenzione né in patria né all’estero. E’ il caso, ad esempio, del corpo insegnanti del celebre Institut Bourghiba des Langues Vivantes, centro linguistico dell’Università El-Manar di Tunisi e giudicato dalla maggioranza degli arabisti in tutto il mondo il migliore esistente per la lingua araba.

Per protestare contro l’esiguità dei salari, il ritardo nell’erogare gli stipendi e la sordità governativa alle loro istanze, gli insegnanti dell’Istituto Bourghiba sono stati in sciopero della fame dal 30 settembre all’11 ottobre scorso, giorno in cui lo hanno interrotto soltanto dopo ripetuti malori. Dal 2011, quando la loro voce si è inserita nel coro della Rivoluzione dei Gelsomini, questi insegnanti hanno assunto anche il ruolo di ambasciatori culturali organizzando workshop, dibattiti e lezioni gratuite per le strade di Tunisi per aiutare gli studenti stranieri e non a comprendere quello che stava avvenendo nel Paese.

In risposta alle loro proteste il governo si è distinto per i tentativi di far passare sotto silenzio le rivendicazioni dei docenti e per l’invio sistematico di insegnanti delle scuole secondarie della capitale a supplire alla carenza di professori durante lo sciopero della fame.

Il Paese è dunque in una situazione di stallo i cui esiti sono difficilmente prevedibili. Una possibile strategia governativa potrebbe essere quella di una prova di forza di polizia e militari non solo contro i cosiddetti jihadisti, ma anche contro i molti contestatori di En-nahda, anche se questa opzione pregiudicherebbe un’eventuale ripresa dei negoziati, possibilità che, seppur con tempi e risultati che è ancora arduo prevedere, appare invece la più probabile.

* Sara Brzuszkiewicz è Dottoressa in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale (Università di Milano)

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