di Francesco Minici
Il 1948 è l’anno in cui Egitto e Turchia hanno accreditato per la prima volta gli ambasciatori nei rispettivi Paesi. Il 2013 ha il profumo di un ricorso storico nel fluire delle relazioni bilaterali: il 23 novembre infatti Il Cairo ha chiesto al rappresentante di Ankara di lasciare il Paese, motivando la decisione con la politica seguita dai turchi di influenzare l’opinione pubblica sostenendo organizzazioni che cercano di creare instabilità. La Turchia, in ragione del principio di reciprocità nei rapporti bilaterali che vige nel diritto internazionale, ha risposto usando la stessa “cortesia” per il dignitario egiziano. Il riferimento del Cairo ai Fratelli Musulmani è palese; il fallimento della politica di “zero problemi con i vicini” di Ankara altrettanto. Le conseguenze geopolitiche sia sul breve che sul lungo periodo risultano imprevedibili. Alcuni aspetti però sono meritevoli di considerazione da un punto di vista geo-economico sia geo-strategico.
Una storia travagliata – Una breve ricognizione storica risulta utile in sede di analisi e di formulazione di ipotesi sul caso in esame. Il fatto che un’alleanza o un conflitto tra due entità politiche si sia verificato o meno in passato non è di per sé indicativo ma comunque importante da considerare quanto meno per identificare i fattori che hanno agito in un arco di tempo significativo e che possono aver lasciato retaggi meritevoli di considerazione. Si dica innanzitutto che le relazioni tra i due Stati hanno da sempre vissuto momenti altalenanti. Il mutuo interesse di leadership che Turchia ed Egitto esercitano nel contesto regionale di riferimento, si è espletato in una dinamica di relazione basata su una linea di conflittualità più o meno placata dalla contingenze delle vari fasi storiche. Molto sinteticamente pare corretto porre degli esempi concreti. Negli anni ’50 – ‘60 il presidente egiziano Nasser ha interrotto i rapporti diplomatici con Ankara in due diversi momenti motivando la propria decisione nell’ostilità del governo turco verso la politica panarabista condotta dal Cairo; la risposta turca fu di offrire il proprio silenzio all’Egitto durante la crisi di Suez del 1956. Solo nel 1988 i rapporti tra i due Paesi sembrano prendere nuovo slancio: in quell’anno l’Egitto ha chiesto al comitato Turco-Egiziano di sviluppare proposte per realizzare progetti d’interesse comune tra i due Paesi. Entrambi gli attori in considerazione hanno continuato sulla falsariga di una mutua “distensione” durante gli anni ’90. In particolare, nel 1996 il Primo Ministro turco Necmettin Erbakan ha il merito di promuovere dopo una visita al Cairo l’entrata dell’Egitto nel “Gruppo degli Otto” lanciato dal Consiglio economico islamico e la cui prima riunione si tiene nel giugno 1997 ad Istanbul. Le relazioni turco-egiziane si sono rafforzate sotto il governo dell’ex presidente Hosni Mubarak, in visita in Turchia nel 2009. Nel 2010 viene istituito il Consiglio di Cooperazione strategica turco-egiziana che definiva i contorni di un nuovo asse collaborativo non solo tramite iniziative autonome dei due Stati, ma anche sotto forma di attività coordinate all’interno dell’ONU. L’istituzione del Consiglio di cooperazione strategica ha rafforzato l’interscambio tra i due Paesi, creando aspettative di sinergia sulle azioni di politica esterna su temi comuni. Già dal 2007 era in vigore un accordo di libero scambio che ha moltiplicato il volume e il valore delle reciproche esportazioni. Questo nel 2010 aveva raggiunto i 3 miliardi di dollari, contro i 726 milioni del 2005 [1]. Tra gli altri, merita menzione il fatto che Turchia ed Egitto hanno firmato un accordo energetico bilaterale con il quale è stata creata una road map per lo sviluppo di sempre maggiore cooperazione nel settore. Ankara infatti cercava di espandere il numero di fonti da cui trarre l’energia necessaria per carburare la sua forte crescita. Più recentemente i rapporti turco-egiziani hanno visto il loro apice con la vittoria del presidente Mohammed Morsi, appartenente ai Fratelli Musulmani, nel 2012. Morsi ha visitato la Turchia nel settembre del 2012 in occasione al congresso per il decennale dell’Akp, durante il quale ha chiamato a raccolta gli investimenti turchi nel Paese promettendo condizioni favorevoli e garanzie sugli investimenti. Allo stesso modo, il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdoğan ha ricambiato la visita al Cairo nel novembre del 2012. Una nutrita delegazione turca ha animato il secondo vertice dell’Alto consiglio di cooperazione strategica con l’obiettivo di incrementare l’interscambio economico tra i due Paesi in vari settori (turismo, immobiliare, agricolo, etc.) fino a 25 miliardi di dollari nel giro di tre anni da quella data. La relazione con il nuovo Egitto rappresentava nella visione di Erdoğan il punto focale della penetrazione turca in Medio Oriente. Il colpo di Stato del 3 luglio 2013 ha però scosso la Turchia: una conferenza a Istanbul dal titolo: “Test of the world in the face of military coup against people’s will” ha corroborato un acceso dibattito tra noti accademici sull’evolversi della situazione egiziana e delle sue ripercussioni nel paese. I lavori finali della Conferenza hanno partorito una civil road map per l’Egitto. Un fermento nella società civile che si è tradotto ad un più alto livello politico. Il colpo di Stato contro il Presidente Morsi ha infatti innescato la pronta reazione turca ai più alti livelli, ponendo Erdoğan come uno dei principali critici nei confronti del nuovo potere militare egiziano. Le relazioni tra i due Paesi hanno così intrapreso un’escalation negativa che giunge fin all’espulsione dello scorso fine settimana dell’ambasciatore turco da Il Cairo per la terza volta nella storia delle relazioni tra i paesi.
Il nuovo contesto regionale e l’Egitto - La situazione venutasi a configurare con l’accavallarsi di quei processi convenzionalmente ricondotti al termine di “primavere arabe”, ha fatto sì che il mondo arabo subisse violente scosse telluriche a livello strategico che sembrano non placarsi vista la fluidità degli eventi. In ogni caso preme sottolineare che la postura egiziana sembra essersi affievolita negli affari regionali. In estrema sintesi pare corretto affermare che la posizione del Paese negli ultimi 30 anni si sia validata grazie a quattro equazioni regionali avveratesi fin dagli accordi di Camp David del 1978. La prima si poggia sulla forza delle relazioni USA-Arabia Saudita; la seconda si concentra sulla necessità egiziana della rimozione dei conflitti regionali su tutti i fronti per concentrarsi meramente sugli affari interni, esigenza che ha reso il Paese dipendente dagli USA. Il terzo assunto si concentra sulla creazione di un rapporto strategico con Israele, in triangolazione con Washington. Un asse tripartito a cui ha risposto l’alleanza tra Iran–Siria come forza counter-balancing degli equilibri nella regione. Il quarto assunto siede sull’ alleanza israelo–statunitense. Rivedendo oggi le proprie priorità strategiche nell’area, l’Egitto sembra essere il Paese maggiormente danneggiato dalla molta confusione circa il suo nuovo ruolo e la forza delle nuove alleanze che il Paese può stringere dentro e fuori la regione araba. Alcuni dei vecchi assunti sopramenzionati sono implosi e l’Egitto ora cerca di riattivare dinamiche diversamente assertive che molti analisti hanno etichettato come un tentativo di neo nasserismo da parte dell’attuale Capo delle Forze Armate el-Sisi, che, pur avendo formalmente la carica di Ministro della Difesa, è il reale detentore del potere.
Il nuovo contesto regionale e la Turchia – Il contesto regionale risulta in profonda trasformazione, allo stesso tempo i due capisaldi della politica estera turca degli ultimi 10 anni: neo-ottomanesimo e “zero problemi con i vicini” hanno subito una trasformazione. Ibrahim Kalin, Consigliere capo per gli Affari Esteri del Premier Erdoğan ha dichiarato esplicitamente che il Paese si trova ora in una “worthy solitude”. Permettendoci una considerazione aggiuntiva, preme sottolineare che il perno della “preziosa solitudine” citata da Kalin, pare rintracciarsi in un acceso slancio pragmatico del Premier turco. La crescita economica turca si incastona infatti in un sistema politico che intende conciliare “democrazia e Islam” servente da polo d’attrazione per tutti i Paesi interessati “dalla primavera araba”. Tutto ciò grazie ad una politica basata sul concetto di “zero problemi con i vicini” che presuppone l’equidistanza (o equivicinanza) dai vari attori regionali. Erdoğan, sfruttando però la contingenza e l’opportunità politica del momento, non si è tirato indietro nel favorire gruppi ideologicamente più vicini alla propria posizione come i Fratelli Musulmani in Egitto. Il naturale corollario di questo nuova tendenza della politica estera turca è stato il deteriorarsi delle relazioni con Siria, Iraq ed Egitto post-golpe. Questo cambio si riverbera sul piano interno. Un esempio si rintraccia negli ultimi sondaggi tra la popolazione, dove circa il 56% dei turchi si disallinea dalla posizione del governo nei riguardi della Siria. Allo stesso tempo cresce un diffuso sentimento di sfiducia nelle capacità della leadership turca nella gestione delle questioni più critiche da affrontare con i Paesi vicini (non solo di lingua araba). L’indebolimento dell’UE e degli USA nel quadro regionale hanno sì aperto nuove opportunità per il neo-ottomanesimo turco, ma alla luce degli eventi attuali il suo slancio sembra essersi tramutato in una nuova fase di politica estera che, seppur molto assertiva, soffre nel suo compimento anche dell’offensiva di varie “niche diplomacies” come quelle del Qatar o del Kuwait che spingono i loro investimenti diretti esteri in aree già appartenenti all’impero ottomano (si veda nei Balcani o in Palestina)
Il contesto regionale negli obiettivi di Egitto e Turchia – La Turchia ha il potenziale per essere un leader nella sua regione. Questa considerazione nasce considerando due profili. Da un lato, nell’ultimo anno le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale indicano che nel 2016 il PIL procapite della Turchia crescerà annualmente con un tasso medio del 7%, ben sopra la media regionale del 5%. Dall’altro, il suo ruolo primario è significativo in termini geoenergetici e sociopolitici. In questo senso, si stima che la Turchia ha più che raddoppiato il proprio consumo di energia tra il 1990 (47 MTEP) e il 2010 (110 MTEP), diventando il primo Paese consumatore di energia del Mediterraneo meridionale (nel 2010 la Turchia ha rappresentato il 31% del consumo energetico regionale). Tale percentuale è destinata ad aumentare costantemente nel corso dei prossimi due decenni, sino a raggiungere un livello del 38% nel 2030. E’ interessante notare inoltre che il 28% delle esportazioni turche riguarda cd. beni intermedi. L’elevata dipendenza delle esportazioni di beni intermedi e d’importazione di prodotti energetici rendono il mercato turco una “bazar economy” secondo la definizione di Sinn del 2006. L’importante ruolo della Turchia nel panorama energetico del Mediterraneo meridionale non è, tuttavia, dovuto solo alle dimensioni del suo mercato, ma anche alla sua singolare posizione geografica. Essa si trova, infatti, al centro del 68% delle riserve mondiali di petrolio e del 75% delle riserve mondiali di gas naturale. Questa caratteristica peculiare apre una serie di opportunità per la Turchia in termini di diversi rispetto al mero transito di energia. Il Paese prevede di diventare un hub energetico. Ciò richiede investimenti significativi in ambito infrastrutturale che lo rendano la chiave di congiunzione della sicurezza energetica propria e dell’area considerata. Sotto un profilo più strettamente politico i rapporti con l’Egitto diventano fondamentali perché la crescita della Turchia necessita inevitabilmente di stabilità nella regione e di un grande alleato nell’area con cui far crescere un solido interscambio. La prospettiva di diventare hub significa per la Turchia diversificare le fonti di energia necessarie alla messa in sicurezza del sentiero di crescita economica interna. Pare corretto affermare che nei termini della relazione Egitto – Turchia, a margine degli investimenti diretti esteri fatti dalla Turchia in Egitto, quest’ultimo sia un mercato di primaria importanza per i nuovi prodotti turchi che si prevedono possano essere esportati oltre i semilavorati.
Sul versante egiziano, la situazione rimane complessa. Il governo formatosi il 9 luglio 2013 ha un equilibrio precario. Dal punto di vista interno, i Fratelli Musulmani sono altamente contrastati ed estromessi da cariche di rilievo. Il sottosegretario USA John Kerry per la prima volta dall’inizio delle rivolte in Egitto ha esplicitato una posizione di netto contrasto dichiarando ai media nella seconda metà di novembre che “la rivoluzione è stata rubata dai Fratelli Musulmani”. Dal canto loro, i Fratelli pare rimangano fedeli ad un’unica strategia e tendenzialmente si pongono su posizioni molto isolate. Nessuna iniziativa di rilievo politico o strategico è rintracciabile da luglio ad adesso con il fine di aumentare la base dei consensi verso la classe media o alta, soprattutto in virtù del mutato contesto all’interno del Paese. Paradossalmente, la loro prolungata reiterazione del problema religioso all’interno del gioco politico è diventata controproducente per tutto il movimento. De facto, l’Arabia saudita si prepara ad entrare nel Paese con un grande piano di sostegno economico. Fino ad ora nelle casse del Cairo sono finiti 5 miliardi di dollari da parte di Riyad, seguita dagli Emirati Arabi Uniti e dal Kuwait che ne hanno prestati altri sette. Risulta chiaro come questo sia una delle maggiori debolezze del governo del Cairo frutto di un pesante retaggio del passato in cui l’economia veniva destabilizzata nel suo sentiero di crescita da un pesante debito estero del Paese. Proprio questi aiuti prendono una luce diversa rispetto agli accordi firmati tra Ankara e Il Cairo. Questi ultimi infatti vivevano in una logica di mutua convenienza mentre alcuni analisti rintracciano finalità controrivoluzionarie negli aiuti provenienti in Egitto da Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar.
Conclusione – Vale la pena sottolineare che il golpe egiziano contro Morsi è stato valutato dall’Akp con le lenti di un potenziale effetto domino di delegittimazione della volontà popolare. Nella storia della Turchia si registrano ben quattro colpi di Stato condotti dai militari, e sebbene nel Paese i militari risultano indeboliti dai provvedimenti di Erdoğan, rimangono una componente strutturalmente laica. Ad ogni modo, il 2014 sarà per la Turchia anno elettorale. L’Akp sembra non godere della maggioranza dei consensi, sia per la situazione della Lira, fortemente indebolita, sia per una crescita sui tassi del debito pubblico del Paese. Ciò potrebbe rilanciare l’ipotesi di un cambio al vertice che andrebbe a incidere ancor di più sulla fluida situazione regionale e nella fattispecie, sulle relazioni con l’Egitto.
* Francesco Minici è PhD Candidate in Scienze della Pace e Cooperazione allo Sviluppo (Università per stranieri di Perugia)
[1] Elaborazione da dati Turkstat, Istituto di Statistica turco
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