Magazine Opinioni
di Giuseppe Dentice Si sono svolte ieri in Turchia le più importanti elezioni politiche degli ultimi anni, che hanno visto la vittoria del AKP, il Partito islamico-moderato “Giustizia e Sviluppo” guidato dall'attuale premier Recep Tayyip Erdogan. Il partito, nonostante la vittoria conseguita (ha conquistato il 50,1% dei voti) non raggiunge il quorum necessario per portare avanti da soli, secondo quanto previsto dalla legge nazionale, le riforme costituzionali. La quota minima per approvare leggi costituzionali è di 330 deputati, con il successivo ricorso al referendum.
Il Paese durante questa campagna elettorale è stato pervaso da una rinnovata tensione politica e sociale. Lo scorso 26 maggio, durante la tappa ad Istanbul del tour elettorale del premier Erdogan, una bomba è esplosa ferendo 7 persone. Nessuna rivendicazione è stata compiuta, ma la polizia turca presume che possa trattarsi dei separatisti curdi del PKK. Il clima rovente di questa campagna elettorale potrebbe continuare anche dopo la le elezioni. Altri episodi preoccupanti avevano infatti contraddistinto il periodo di campagna elettorale, come gli scontri tra manifestanti curdi e la polizia nelle città di Istanbul, Diyarbakir, Batman e Bingol. Inoltre, si è verificato un sistematico attacco agli uffici rappresentativi del BDP (partito filo-curdo) a Istanbul, Kocaeli e Bursa. Pertanto, il tour elettorale di Erdogan nelle provincie a maggioranza curda è stato piuttosto fallimentare. Inoltre, sono state completamente disattese le richieste avanzate da numerosi politici curdi, tra cui Osman Baydemir e Leyla Zana, per un riconoscimento formale, sia sul piano dei diritti civili sia per un maggiore coinvolgimento della loro rappresentanza politica, durante la campagna elettorale. Le due principali compagini politiche turche (AKP e CHP) per cercare di aumentare il proprio peso all'interno del Majlis (Parlamento), si sono scontrati, infatti, principalmente sui temi della sicurezza e sulla questione curda.
Il CHP (il Partito kemalista), che si trova all'opposizione, ha incentrato parte della sua campagna elettorale sulla “questione curda”. Il leader del partito, Kemal Kilicdaroglu, ha tenuto diversi comizi nelle regioni sud-orientali a maggioranza curda, sostenendo un'apertura maggiore verso i Curdi ma negando qualsiasi alleanza con il BDP. A differenza di Kilicdaroglu, il premier Erdogan ha impostato tutta la campagna elettorale presentando i risultati economici del suo governo e la maggiore intraprendenza internazionale del Paese. Erdogan ha presentato l’ambizioso progetto “Hedef 2023” (il 2023 coincide con il centenario della fondazione della Repubblica Turca): in tema di politica economico-sociale l'AKP ha proposto l'abolizione dell’obbligo di leva nel servizio militare, così come l’intenzione di creare un nuovo piano di edilizia popolare che consenta alle giovani coppie sposate di accedere a mutui a tassi zero per l’acquisto della prima casa; il partito di maggioranza, inoltre, ha presentato il faraonico progetto di creazione di un canale ad ovest del Bosforo che permette la diversificazione delle vie del traffico commerciale marittimo delle petroliere e dei cargo, evitando l'intasamento degli stretti di Istanbul. Ma in tema di sicurezza e sulla questione curda il premier ha negato più volte durante i suoi comizi l'esistenza di una tale “problematica”, considerando i curdi prima di tutto dei cittadini turchi. Questa nuova posizione, in netto contrasto con la durezza del passato, lascia intendere come il nuovo approccio dell'AKP nei confronti dei Curdi sia basato sul concetto di "inclusione passiva", avendo pertanto come fine la delegittimazione delle richieste di autonomia del BDP. La Turchia oggi è un Paese in piena evoluzione politica ed economica. Il PIL pro capite, secondo i dati dell'Intelligence Economist Unit, è triplicato, da 3.500 a 10.079 dollari statunitensi. Questo risultato economico ha permesso ad Ankara di perseguire una politica estera più determinata. Sotto l’AKP la politica estera turca, basata sulla strategia “zero problemi con i vicini” promossa dal Ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, ha cercato di migliorare le relazioni diplomatiche, economiche e culturali con tutti i Paesi confinanti, assumendo maggiore dinamismo nel Caucaso e nella regione mediorientale. Il Paese, nonostante lo sviluppo e la prosperità, rimane una nazione in lotta con il suo passato e rischia anche nell'immediato futuro di rimanere in trincea se non si riuscirà a risolvere i problemi attraverso un processo di pacificazione nazionale promosso dalla politica. Restano molte questioni spinose (libertà sociali e individuali, nuova Costituzione, deriva populiste, etc.) e molte legate alla “causa curda”: la richiesta di arresti domiciliari per Abdullah Ocalan, leader del PKK detenuto dal 1999, la questione della maggiore autonomia per la regione curda e quella dell’insegnamento in lingua curda. Le aspre polemiche politiche in Turchia potrebbero rappresentare l’ostacolo maggiore alla creazione del consenso necessario per stabilire dopo il voto una nuova Costituzione che prenda in considerazione questioni centrali come i diritti delle minoranze, la libertà di stampa, le riforme religiose e le relazioni fra ambito civile e militare se non si affronta in maniera seria e decisa la “questione curda”. Il problema dei Curdi è stato sempre affrontato o militarmente o considerando questi un prodotto del sottosviluppo. Questa era la visione promossa in maniera semplicistica dall’ex-Primo Ministro Bulent Ecevit, che pensava di dover trattare il problema come un fenomeno di natura economica causato dalla povertà e dalla deprivazione della regione sud-orientale. Il ragionamento di fondo era il rifiuto dell’esistenza dei Curdi nel Paese, intesi come gruppo etnico separato con la propria cultura e la propria lingua, entrambe represse brutalmente dal panturchismo. L’idea era che se si fosse riusciti a promuoverne lo sviluppo della regionale, i propri abitanti si sarebbero dimenticati della loro identità naturale e sarebbero divenuti “Turchi”. Tuttavia, la povertà e la deprivazione della regione sud-orientale, sebbene abbiano contribuito ad aumentare il desiderio di autonomia, non ha generato il terrorismo separatista curdo, ma, semmai, hanno radicato il senso di identità, un po' come è avvenuto in Spagna per i Baschi e i Catalani. Lo stesso può dirsi anche per gli Aleviti che vivono in Turchia. Essi hanno conosciuto una sorte analoga a quella curda a causa della discriminazione religiosa e oggi continuano a battersi per il loro riconoscimento. Gli Aleviti hanno una loro identità ma molti in Turchia li considerano alla stessa stregua dei Curdi, dei prodotti del sottosviluppo come vorrebbe la politica, o peggio ancora, dei miscredenti o comunque dei non musulmani. Il punto della divisione interna tra Turchi oggi risiede in questo: una frattura sempre maggiore tra religiosi e laici che potrebbe sfociare in un nuovo conflitto sociale e portare, come in passato, a nuovi golpe se l'esercito, custode della tradizione kemalista, declinerà definitivamente al suo ruolo super partes e garante della unione nazionale. A far temere possibili derive più populiste e meno secolarizzate sono stati i toni di Erdogan in campagna elettorale che hanno assunto caratteri marcatamente nazionalisti, orientandosi su una linea politica particolarmente filo-islamica. Questo rafforzamento del potere è stato favorito dall'accresciuto ruolo della polizia, diventata notevolmente più forte e dominata dai membri di una minoranza musulmana guidata dalla controversa figura dell’imam Fetullah Gulen. Le conseguenze sono state particolarmente pesanti soprattutto per la libertà di stampa: oltre cinquanta giornalisti sono in carcere al momento, nella maggior parte dei casi con l'accusa di cospirazione contro lo Stato; sono stati chiusi alcuni siti web rei di deviare la formazione dei giovani; sono state perpetrate minacce nei confronti di politici dell’opposizione, come, ad esempio, la “decapitazione” dei vertici del partito kemalista per uno scandalo sessuale. Infine, se l’AKP avesse ottenuto oltre i due terzi della maggioranza in Parlamento, il pericolo di tendenze accentratrici sarebbe stata sempre più concreta. L’obiettivo dichiarato di Erdogan per la prossima legislatura è riscrivere la Costituzione, che è ancora essenzialmente quella che fu redatta dopo il colpo di stato del 1980. L'intenzione del governo sarebbe di cambiarla senza dover negoziare con nessun’altra parte politica. Erdogan ha già detto più volte che il suo obiettivo è trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale alla francese, il che gli consentirebbe di candidarsi alla presidenza per altri due mandati anche dopo la fine del suo terzo incarico come Primo Ministro. È indubbio che la Turchia oggi abbia impresso un deciso passo sulla strada del progresso, come testimoniano la maggior parte degli indici di sviluppo del Paese. Anche sul piano della politica internazionale Ankara è riuscita a conquistare un ruolo di rilievo grazie alla nuova politica del Ministro degli Esteri Davutoglu, definita “neo-ottomana”. Ciò nonostante, il Paese deve ancora affrontare i moltissimi problemi interni, a cominciare dai movimenti di indipendenza delle minoranze. Inoltre, Erdogan sembra introdurre nuovi problemi con i suoi atteggiamenti accentratori, come la limitazione alla libertà di espressione, con la censura di internet, la scarsa protezione offerta ai giornalisti. Ma se non si promuove una pacificazione interna vera volta a dare stabilità si rischia di spaccare il Paese in due tronconi disomogenei che mettono a rischio i consolidati automatismi della società turca, con evidenti conseguenze non solo sugli equilibri regionali, ma anche internazionali. * Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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