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Tutta la mia verità sul parto cesareo

Da Jessi
Keith Haring, Pisa

Tuttomondo, Keith Haring

Quando leggo articoli che parlano del parto cesareo mi sento molto a disagio. Ho provato a rifletterci e ho trovato almeno due ragioni. La prima, è che si paragona il cesareo sempre e solo al parto ideale, quello perfetto, in cui tutto va bene prima, durante e dopo. E va bene per tutti, mamma, bimbo e papà (il quale, tutt’al più, sviene in sala parto).

La seconda ragione è che si parla del cesareo come lo si fa tra conoscenti: “Come è stato il tuo parto?” “Cesareo” “Ah” e tutti cambiano discorso.

Se ne parla cioè in senso evitativo, alimentando la percezione che forse vero parto non è e anche che non ci sia niente da raccontare. Molti articoli, a mio avviso, fanno lo stesso quando l’unica cosa che dicono è che si potrebbe evitare o che se ne potrebbero evitare un gran numero.

Poniamo pure di essere d’accordo, ma allora quelle mamme che sanno di doverlo affrontare o che si troveranno ad affrontarlo all’improvviso? Quando ho avvertito l’ostetrica del corso preparto che avrei fatto un cesareo ha scosso le spalle come per dire ‘Se ti tocca, fallo’ e niente più. Come se appunto per la mamma questo non fosse un parto. Niente a cui essere preparate, niente di cui parlare prima o durante. Niente di cui parlare dopo.

Incuriosita dal mito che Giulio Cesare fosse nato in questo modo, sono andata a leggermi un po’ di storia e ho avuto i brividi percependo la consonanza tra come ancora oggi (non) si parla del cesareo, per negarlo o tacerlo, e la sua origine, come intervento estremo per salvare un bambino nel caso in cui la mamma stesse morendo o fosse morta. Sono secoli in realtà in cui (ancora brividi), il taglio cesareo “si svolge prevalentemente su donna viva.”

Nella percezione comune, questo aggiornamento non sembra davvero essere avvenuto. I medici, per lo più, da quello che leggo e sento dire, operano come in qualsiasi altro caso in cui il paziente sia addormentato. Operano come se ci fosse da curare un arto, non da far nascere un bambino, da far vedere la luce ad una bambina.

Durante il parto, mi è stata rivolta la parola in tutto cinque volte. La prima, da parte dell’anestesista:

-Mi scusi, che tipo di anestesia mi farà? Al corso ci hanno detto che ci sono diverse possibilità e che è il medico che sceglie.

-Appunto!! Decido io e non è questo il momento di fare domande!

La seconda, da parte del neonatologo, a soli dieci minuti dall’inizio dell’intervento:

-Come la chiama la bambina?
-B….
-Ecco B!!!

La terza, da parte di una voce che non sono riuscita ad identificare:

- Sì, stia tranquilla, sta benissimo!

La quarta, da parte dell’infermiera della neonatologia:

-Davvero, è proprio bella!

La quinta e ultima, da parte di un’altra ostetrica:

-Qui fa freddo per la piccina, devo portarla via…

Un’ora circa in sala operatoria. Tantissime persone dentro, almeno tre ginecologi, due anestesisti, due ostetriche, alcune infermiere e un po’ di allievi per ogni tipologia professionale. Tantissimi nomi e cognomi ripetuti, chiacchiere, domande anche tecniche su ciò che stava avvenendo, ma anche no.

Cinque scambi di parola con me.

Non commento di più, penso non ce ne sia bisogno.

Aggiungo invece tutto ciò che per me, l’ha reso bello lo stesso, nonostante tutto questo.

L’anestesista non mi ha dato risposta e mi ha rimproverata, ma l’infermiera che mi sosteneva per l’epidurale, alle sue parole, mi ha stretto la mano, in silenzio.

Il mio ginecologo aveva passato una mattinata intera in reparto, sarà stato stanco e aveva finito il turno, ma -come promesso- è stato lui a far nascere la mia bambina. Sapevo che potevo affidarmi, e l’ho fatto (e lo rifarò…).

Una cara amica mi aveva descritto le sensazioni del parto come “ti fanno la lavatrice nella pancia”. Lei non era stata preparata, io sapevo solo questo. E in effetti la descrizione corrispondeva, ma qualcosa, in tutto questo, ha risvegliato nella mia mente ricordi di giochi d’acqua dell’infanzia, risate di bambine e di sorelle e anche da queste sensazioni di acqua e gioco sei nata…

La mia bambina non me l’hanno fatta vedere subito, ma lei ha urlato tutto il tempo, e io ho sentito la tua voce, finalmente!

Quando l’hanno portata da me, solo allora, si è calmata e sembrava potesse restare così serena per ore, vicina a me. La guardavo e basta, non avevo il coraggio di far niente, sapevo cosa ci aspettava, ma un’infermiera che la sapeva lunga me l’ha avvicinata per un bacio sulle labbra…

Dieci minuti dopo di lei sono uscita anch’io. Avevo addosso morfina e chissà che altro. Ero felice, la mia bambina stava bene, ce l’avevamo fatta. Le altre mamme nella sala post partum piangevano, io sembravo un po’ drogata e lo ero… Avevo scelto l’ospedale che mi garantiva la massima sicurezza, e l’avevo avuta. Solo dopo ho capito quante cose mi erano mancate, di quante cose avrei avuto bisogno e diritto…

L’ho rivista solo 24 ore dopo, un’eternità. Lei era al piano di sotto, io avevo il catetere spinale e non c’era mai personale sufficiente per usare la sedia a rotelle…

Non si è mai attaccata perché le davano il latte artificiale e, pur provando, la trovavo sempre beatamente sazia e addormentata.

Stava bene, si vedeva. Il papà, per prendermi un po’ in giro, diceva che al trauma della separazione da noi sarebbe seguito quello della separazione da tutti i suoi amichetti della nursery…

Al terzo giorno siamo tornate a casa, il latte era arrivato lo stesso e ne abbiamo preso per altri 20 mesi (lottando e informandoci…). La nostra unica preoccupazione era tenerla ‘abbastanza in collo’ perché dormiva sempre, serena e sorridente. L’abbraccio e le nostre voci sembravano tutto ciò di cui aveva bisogno.

Il cesareo crea una ferita, non solo sulla pancia. Una ferita tra il prima e il dopo la nascita, che non è percepita e rispettata a sufficienza. Una ferita tra la mamma e gli altri, perché non se parla. Una ferita fisica, perché non è immediata la ripresa…

E’ giusto parlarne, come succede, per evitarne l’uso indiscriminato.

Però, credo servirebbe parlarne di più anche come i un vero parto. Perché, come per ogni altro parto, un bambino e una mamma ne sono nati. E, come succede secondo me anche parlando del post partum, non serve parlare solo di cose fisiche e di ormoni, sarebbe importante curare tutti gli aspetti umani e sociali di un vissuto, che sia la preparazione, il parto o il post partum.

Quando siamo felici, non diciamo mai’ è colpa degli ormoni’, ma ‘è grazie ad un amico, ad un bacio, ad un libro’… Quando parliamo del dolore e della sofferenza, troppo spesso, secondo me, consideriamo e curiamo gli aspetti fisici, saltando un anello, ciò che naturalmente, nell’ordine delle cose del mondo, è la causa degli ormoni della gioia e di quelli del dolore, cioè quello che viviamo nella nostra mente e nella relazione con gli altri.

Se nel cesareo non c’è liberazione degli ormoni dell’amore per via fisica, può esserci per la via del cuore, dell’umanità, del contatto, del rispetto. Anche in questo senso, credo, sarebbe importante parlare del cesareo e preparare le mamme e il personale sanitario ad un’accoglienza diversa, prendendo esempio dal proprio istinto di umanità, ma rendendolo una pratica comune e non un caso di buona sorte: una mano che stringe la tua, un’altra che ti offre la tua bambina da baciare…

Tre amiche raccolgono racconti di parto e mi hanno chiesto se volevo parlarne anch’io, aiutandomi così a scrivere cose che mi era difficile dire. Ecco il link agli altri loro racconti e blog:

Isabella, I racconti di nascita di Mamma di Cuori

Jessica, I racconti di nascita su Gemelli Ribelli

Martina, Le mamme

Se avete letto o scritto articoli e consigli, o volete scriverli qui, per affrontare il cesareo in modo ricco e consapevole, scrivetemi nei commenti o per email.

Ho visto in anteprima questo splendido documentario, The face of Birth, gentilmente invitata da Laurence del Punto Doule a Pisa, dove si svolge un delicatissimo lavoro di accoglienza per la nascita. Il documentario, di cui qui si possono vedere alcuni brani,  è una testimonianza della lotta per il diritto ad un parto consapevole e partecipato, con grande rilievo dato al parto in casa. La mia personale opinione su questo è che sarebbe utile e a maggior beneficio di tutti -di genitori e bambini, di parti semplici e parti complessi- rendere sempre più accoglienti e umani gli ospedali, pur lasciando a chi lo desideri il diritto all’assistenza domiciliare.

Ho visto da poco anche questo delicato documentario realizzato da Quando nasce una mamma: secondo me, un documento importante sui fattori sociali (e soltanto non ormonali) legati al post-partum. Mi sarei solo aspettata di vedere anche dei momenti lieti

:)
E a questo proposito, aggiungo solo che tra i tanti fattori sociali dell’isolamento della mamma c’è una difficoltà, dovuta a tante cose, a comunicare da subito con i propri piccoli, ed è anche da questo che nasce il mio impegno e amore per la causa di ‘parlare con i bambini’.

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